TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      Numero 4/2008


 

Stefano Petrucciani

 

Giustificare la giustizia: la prospettiva dialogica

 

1. Il problema della giustizia è il più antico della filosofia politica e ne costituisce quasi il filo conduttore se è vero che, da Platone a Rawls, il pensiero non ha cessato di interrogarsi intorno a questo tema. D’altra parte, non si può dire che il discorso intorno alla giustizia appartenga in modo esclusivo ad un ramo della filosofia, e cioè a quello della filosofia politica o a quello della filosofia morale. Esso in realtà li investe entrambi, perché una teoria della giustizia politica è, per la sua stessa natura, una teoria morale della politica, cioè una teoria di quali principi giusti, cioè moralmente giusti, dovrebbero governare una comunità politica. Lasciando impregiudicati i diversi modi in cui il rapporto tra giustizia morale e giustizia politica può essere delineato, sembra chiaro, almeno dal mio punto di vista, che il discorso sulla giustizia tocca entrambe le sfere (filosofia morale e filosofia politica) che la consuetudine accademica mantiene separate.

Esso presenta però, già in prima battuta, almeno due facce sulle quali ci si deve interrogare, e che non sono peraltro indipendenti l’una dall’altra. Da un lato infatti ci si può chiedere, come ha fatto ancora Rawls nel 19711 riaprendo la discussione nella filosofia politica normativa, che cosa è la giustizia: se la si debba definire come il dare a ciascuno il suo, il trattare paritariamente gli interessi di ciascuno, il garantire a ciascuno eguale considerazione e rispetto, e si potrebbe continuare molto, molto a lungo. Dall’altra parte ci si può chiedere, e a mio giudizio ci si deve chiedere, perché si debbano trattare gli altri uomini secondo giustizia, se e perché le norme che governano la nostra cooperazione sociale debbano essere ispirate a principi di giustizia. Da un lato insomma vi è il problema di definire la giustizia, dall’altro quello di giustificarla, nel senso della giustificazione pratica: si tratta insomma di rispondere al problema del perché la giustizia ci vincola; se, e perché, possiamo affermare che i principi o le norme che regolano la nostra cooperazione sociale dovrebbero essere conformi al criterio della giustizia.

In altre parole, si tratta di comprendere se sia possibile rispondere alla sfida dello scettico che afferma, come il Trasimaco della Repubblica di Platone, che ciò che diciamo giusto non è altro che l’utile del più forte, oppure, per usare un altro linguaggio, che la giustizia non è che ideologia (come si lascia intendere in alcuni luoghi di Marx), donde si ricava la tesi che non ha senso una critica della società in base a criteri di giustizia, perché qui siamo nel campo del mero flatus vocis e altre sono le forze che governano la politica e delle quali possiamo parlare con verità.

Prima facie, sembrerebbe quindi che si possano distinguere due questioni che si pongono a chi voglia discutere il problema della giustizia: in primo luogo la questione di individuare qual è il contenuto della norma di giustizia, in secondo luogo la questione che concerne la giustificazione della validità di questa norma: perché la norma di giustizia è valida, perché è doveroso obbedire ad essa. Questa questione, è bene ricordarlo subito, si distingue da quella circa l’osservanza di fatto della norma di giustizia e da quella circa la motivazione che spinge a questa osservanza; infatti si potrebbe ben riconoscere la validità di una norma di giustizia e poi non seguirla nel proprio comportamento.

Questo modo di impostare il problema, che potremmo definire dualistico (da una parte individuare la norma di giustizia, dall’altra giustificare la sua validità), è per esempio quello che, classicamente, viene seguito da Kant in quella che (a mio avviso) è la sua più profonda opera sulla morale, e cioè la Fondazione della metafisica dei costumi: nella seconda sezione Kant ci dà la definizione della norma di giustizia, cioè la formula dell’imperativo categorico, nella terza sezione la vera e propria fondazione, cioè la risposta alla domanda sul perché dobbiamo obbedire ad essa.

Kant quindi articola la problematica di quella che noi qui chiamiamo la norma di giustizia in due momenti: purtroppo, però, mentre la prima questione viene da Kant trattata e svolta in modo grandioso (anche se non privo di ambiguità, che emergono per esempio nelle diverse formulazioni dell’imperativo categorico, o nella difficoltà di intendere cosa significa “non poter volere” che una certa massima divenga legge universale) la seconda si impiglia nonostante l’acume kantiano in non poche difficoltà, che porteranno il filosofo a “ripiegare”, nella Critica della ragion pratica, sulla teoria (anch’essa, peraltro, di non facile decifrazione) del “fatto della ragione”.

Quelle di Kant, però, sono le stesse difficoltà che incontriamo ad ogni passo nell’ambito della teoria morale e politica: mentre non ci mancano interessanti definizioni della giustizia, la questione della giustificazione sembra filosoficamente molto meno affrontabile.

 

2. C’è da chiedersi però se la divisione del problema della giustizia in due questioni distinte, che pure ha dalla sua la massima autorità, quella appunto di Kant, non sia a sua volta assai problematica. Per quanto mi riguarda, io sono convinto che questa divisione sia, se appena si vuole andare un po’ a fondo, insostenibile. La domanda che porrei, infatti, è la seguente: si può definire la giustizia se non se ne fornisce al tempo stesso la giustificazione? Credo che la risposta a questa domanda debba essere negativa: non si può definire prima la norma di giustizia e poi indagare intorno alla giustificazione razionale di essa. Non si può, a mio avviso, che seguire il percorso inverso, e cioè indagare se vi sono ragioni per affermare che una certa norma è valida: se riusciamo a dare queste ragioni, allora potremo dire che quella è la norma di giustizia. Il processo inverso non è possibile, a mio avviso, perché non si vede in che modo, se non attraverso la ricerca delle ragioni, potremmo arrivare a determinare il contenuto della norma di giustizia.

La via alternativa è quella che viene seguita, per esempio, da Rawls nella sua Teoria della giustizia. In questo caso, la determinazione della norma di giustizia è possibile in quanto si assume che una buona teoria della giustizia sia quella che si accorda con i nostri giudizi morali ponderati, o meglio con i nostri giudizi morali ponderati in equilibrio riflessivo (cioè non con i giudizi che noi formuleremmo prima facie, ma con i giudizi che formuleremmo dopo aver confrontato i giudizi prima facie con teorie che esprimono i principi che guidano i giudizi ed eventualmente averli modificati). Rispondere alla domanda “che cos’è la giustizia” è possibile, in questo caso, perché – come sostiene Rawls – la teoria della giustizia è “una teoria dei sentimenti morali che (richiamando un titolo del XVIII secolo) mostra i principi che regolano le nostre capacità morali o, meglio, il nostro senso di giustizia”2. Ciò che però a mio avviso rende insoddisfacente questo modo di procedere è l’uso del termine “nostri” (principi, giudizi ecc.). Qual è il “noi” a cui questo “nostri” si riferisce? Come se ne possono tracciare i confini? Friedrich Nietzsche, che sosteneva che la giustizia esprime il risentimento dei deboli contro i forti, fa parte o non fa parte di questo noi? E se non ne fa parte, per quali ragioni ne viene escluso? “Noi” sta per tutti gli uomini (in senso spaziale e storico) o solo per noi liberali occidentali? Insomma, chi siamo “noi”?

Determinare la giustizia prima di averla giustificata è quindi possibile, ma a patto che si riconosca che ciò cui si perviene è la concezione della giustizia accettata, o accettabile, da un certo gruppo di uomini, i cui confini sono peraltro incerti e non ben delimitati. Ma se è così, non possiamo dire che quella che definiamo è “la” giustizia. Possiamo dire al massimo che è “una” concezione della giustizia, alla quale se ne potrebbero contrapporre altre, per quanto ne sappiamo, altrettanto valide.

 

3. Questa conclusione a mio avviso si può evitare solo se, invertendo l’ordine dei fattori, si parte dal problema della giustificazione per giungere solo da qui, se ci si arriva, a determinare qual è il contenuto della norma di giustizia. Il punto di partenza di una riflessione sulla giustizia sta perciò a mio avviso nel porre la domanda: è possibile individuare norme valide dell’interazione sociale, cioè norme tali che ognuno debba riconoscerne la validità?

A mio modo di vedere, i tentativi più interessanti di rispondere a questa difficile domanda sono stati, nel pensiero del Novecento, quelli che hanno cercato di accostarsi al problema partendo da un approccio discorsivo o dialogico. Non sono pochi: basti ricordare, nell’ambito della filosofia di orientamento più “analitico” Griffith e Peters, nella filosofia tedesca Habermas e Apel, e infine, ma primo in ordine di tempo, il nostro Guido Calogero.

Questi autori costruiscono, o possono essere utilizzati per costruire, la giustificazione della validità di una norma di giustizia. Dal mio punto di vista, si tratta di una giustificazione che procede in due tempi: in primo luogo è necessario chiarire in che senso una norma può essere giustificata; quindi si deve mostrare come, in concreto, la norma di giustizia possa venir giustificata.

Per quanto riguarda il primo aspetto, sul quale devo essere molto rapido3, dico subito che qui si parla di giustificazione nel senso di una sorta di argomento trascendentale inteso così: giustificare la validità di una norma vuol dire mostrare che chiunque si impegni nel discorso relativo ad essa già la presuppone in quanto discutente, e perciò non può rifiutarla o metterla in dubbio se non cadendo in contraddizione con se stesso.

Ma si danno norme di questo tipo, cioè norme la cui peculiare forza sta nella circostanza per cui anche chi cerca di negarle o confutarle le riafferma, avvolgendosi perciò in contraddizioni logiche o in quelle che Apel ha chiamato contraddizioni performative (cioè contraddizioni tra ciò che affermiamo con le parole e ciò che facciamo come parlanti, o che implichiamo nel nostro fare)?

Nella prospettiva aperta dagli autori discorsivisti, le norme di cui si può giustificare la validità mediante un’argomentazione trascendentale sono innanzitutto alcune norme di base del discorso. Per esempio, la norma che chi fa un’affermazione dev’essere aperto all’ascolto delle obiezioni che nei suoi confronti vengono formulate, e dev’essere pronto a rivederla qualora dal discorso risulti, per esempio, che la sua affermazione è falsa o autocontraddittoria: chiunque partecipi a un discorso dev’essere aperto al confronto con tutti gli interlocutori e, come direbbe Habermas, non deve riconoscere altra cogenza se non quella dell’argomento migliore. Non è difficile, a mio giudizio, mostrare la peculiare validità di queste norme. Supponiamo infatti che qualcuno voglia sostenere che questa teoria delle presupposizioni normative del discorso è sbagliata: egli dovrebbe, per l’appunto, formulare delle obiezioni e rimetterle al confronto discorsivo, ma così riconoscerebbe appunto, nel suo fare, quelle presupposizioni normative che invece aveva detto di voler negare. Cadrebbe quindi in quella che Apel e altri hanno chiamato una contraddizione pragmatica o performativa.

Sembra dunque possibile, in questa prospettiva, giustificare (trascendentalmente) alcune norme del discorso che chiunque discuta intorno alla validità di una norma di giustizia, o a un qualsiasi altro tema teorico, deve riconoscere (appunto in quanto discutente)4. Queste norme del discorso, però, non assomigliano per niente a quello che solitamente si intende come una norma di giustizia (essa infatti non è solo una norma che regola lo svolgimento di discorsi, ma dovrebbe essere in grado di dirimere i conflitti tra pretese diverse che sorgono nel contesto delle interazioni sociali). La domanda che perciò a questo punto si pone è la seguente: vi è modo di mostrare che la validità riconosciuta e riconoscibile di certe norme del discorso implica anche la validità di uno o più principi di giustizia?

Riprendendo il titolo di un recente libro di Rainer Forst5, potremmo esprimere il problema anche in questi termini: se è vero, come crediamo si possa affermare, che ogni partecipante al discorso ha un “diritto alla giustificazione” (delle asserzioni che vengono avanzate in un discorso) ne consegue un diritto alla giustificazione sul piano delle interazioni e delle pratiche che regolano la cooperazione sociale?

 

4. Se si pongono queste domande, o questioni simili (come ad esempio quelle che Norberto Bobbio rivolse a suo tempo a Guido Calogero6), il discorso si fa più complicato come dimostra, tra l’altro, il fatto che i diversi studiosi che partono da un approccio discorsivista offrono ognuno una soluzione differente al problema di giustificare la giustizia. Proviamo a distinguere alcune posizioni.

 

4.1 Cominciamo dall’approccio di due autori anglosassoni che hanno sviluppato negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento una prospettiva discorsiva: A. Ph. Griffith e R. S. Peters7. Griffith ritiene che alcuni principi morali possano essere giustificati mediante un argomento trascendentale, nel senso che, “se un discorso morale deve in generale essere possibile”8, come forma autonoma e obiettiva del discorso pratico, allora bisogna riconoscere la validità dei principi che sono, di questo discorso pratico, condizioni di possibilità. Il discorso morale è autonomo e oggettivo in quanto verte intorno a principi che gli esseri razionali si danno da sé, e che sono validi in linea di principio per tutti gli esseri razionali. Perciò chiunque partecipi a un discorso pratico autonomo e oggettivo, intorno al problema se una certa azione sia giusta o meno, deve accettare, sostiene Griffith, tre principi che costituiscono il nucleo di una concezione di giustizia sostantiva, e cioè i principi di imparzialità, benevolenza razionale e libertà.

Perché proprio questi tre principi? L’argomento a favore dell’imparzialità è abbastanza evidente: se la giustizia di un’azione dev’essere valutata obiettivamente, è richiesta l’imparzialità, e cioè non si può valutare l’azione diversamente se a compierla è un soggetto piuttosto che un altro. La benevolenza razionale (che prescrive che devono essere presi in considerazione gli interessi di tutti) viene, schematicamente, giustificata con l’argomento che segue. Il discorso pratico deve essere aperto alla partecipazione di ogni possibile interlocutore razionale; ogni essere razionale persegue nella misura del possibile i suoi interessi; sarebbe irrazionale per lui partecipare a una forma di discorso il cui effetto pratico sarebbe di negare i suoi interessi; quindi, se il discorso morale deve essere possibile, esso presuppone che non vengano trascurati gli interessi di alcuno e che, nel determinare ciò che è giusto, vengano presi in considerazione gli interessi di tutti gli esseri razionali.

Il principio di libertà è così giustificato: se l’azione giusta deve essere determinata all’interno del discorso, ciò implica che non si possa interferire con la forza, ma solo attraverso la persuasione razionale, nel corso di azione di un altro essere razionale.

La conclusione di Griffith è, pertanto, che se un discorso pratico obiettivo deve essere possibile, allora bisogna accettare i tre principi di imparzialità, benevolenza razionale e libertà. In sostanza la sua posizione si potrebbe riassumere così: chiunque voglia dar luogo a una discussione razionale intorno a ciò che è giusto o ingiusto, deve presupporre determinati principi, tra i quali il principio per cui gli interessi di ognuno hanno diritto alla stessa considerazione e rispetto. Rimane però possibile rifiutare in blocco questo tipo di discorso, sostenendo che la domanda se un’azione o una norma siano giuste o ingiuste non ha proprio senso. Tuttavia, questa possibilità incontra a sua volta una difficoltà in quanto il discorso intorno a ciò che si deve o non fare sembra costituire una sorta di universale sociale; e se fosse così (ma questa asserzione appare alquanto problematica), non si comprenderebbe come ci si possa sottrarre ad esso. L’uscita dal discorso morale, infatti, implicherebbe “il rifiuto più completo di parlare o pensare su ciò che deve essere fatto, cosa che costituirebbe l’abbandono di una forma di pensiero a cui, nella nostra società, tutti vengono iniziati sia pure in gradi diversi. In una simile eventualità non sarebbe più possibile avanzare ragioni che influenzino la condotta. Sarebbe difficile riuscire ad immaginare il tipo di vita a cui uno scettico morale di tal genere si condannerebbe”9. Queste ultime considerazioni, proposte da Peters, le ritroveremo in Habermas quasi negli stessi termini.

Riassumiamo, per concludere, il nucleo dell’approccio di Griffith e Peters: chiunque partecipi al discorso morale deve presupporre la validità di principi sostantivi di giustizia; ma, sul piano puramente teorico, è possibile non partecipare al discorso morale ritenendo che esso non abbia senso.
 

4.2 Diversa per certi aspetti, ma non per altri, da questa impostazione è la posizione di Habermas: posizione complicata, più volte rielaborata nel tempo, che provo a definire in modo molto schematico, partendo dalle messe a punto più recenti. Le norme del discorso argomentativo generalmente inteso (non stiamo parlando quindi del discorso morale), che anche Habermas assume come punto di partenza, non implicano e non si traducono in norme dell’agire pratico in generale, e quindi non è possibile ricavare immediatamente da esse una norma di giustizia. Su questo punto Habermas ritiene, come afferma già nel volume del 1983 Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln,10 che la sua posizione si distingua nettamente sia da quella di Peters che da quella di Apel. Non è affatto ovvio, scrive, “che le regole indispensabili all’interno dei discorsi possano pretendere di valere anche all’esterno delle argomentazioni”. E prosegue: “Un trasferimento di tal genere non si può dimostrare, come tentano Peters e Apel, sostenendo che dai presupposti dell’argomentazione si ricavano direttamente le norme etiche fondamentali”11.

Questo tema è ribadito molto chiaramente anche nel più recente confronto di Habermas con la prospettiva teorica di Apel, al quale già in precedenza abbiamo fatto riferimento: “Dal solo contenuto normativo dei presupposti dell’argomentazione – scrive Habermas – non si lascia fondare il principio morale della considerazione paritaria degli interessi”12.

Le norme sostantive possono essere solo il risultato di effettivi discorsi pratici, volti cioè alla individuazione di una norma valida. Valide sono quelle norme che, in condizioni ideali di discorso, potrebbero essere accettate da tutti in quanto assicurano l’imparziale trattamento degli interessi di ciascuno. Il discorso pratico è possibile, e può condurre a qualcosa, solo in quanto sia governato dall’idea che il senso di norme giustificate è che “esse regolano materie sociali nell’interesse comune dei possibili soggetti coinvolti”13.

La decisione di dar luogo al discorso pratico equivale quindi alla decisione di considerare le questioni di giustizia come suscettibili di risoluzione mediante argomentazione razionale. Ma ciò implica allora (e in questo punto la posizione di Habermas si riavvicina a quella di Peters che prima abbiamo ricordato, anche se Habermas non lo crede) che il discorso pratico sia un tipo di discorso al quale, dal punto di vista puramente teorico, si può anche non partecipare, optando così per la tesi della non risolubilità argomentativa delle questioni di giustizia. Tuttavia, come Peters sebbene in modo più sofisticato, Habermas ritiene che la non-partecipazione al discorso pratico sia un’opzione che “sussiste soltanto nella riflessione filosofica, ma non nella prassi”. Nelle interazioni sociali quotidiane si sollevano continuamente questioni di giusto e ingiusto e gli individui umani che sono calati, lo vogliano o no, in una forma comunicativa di vita, non possono realmente uscire dal sapere morale quotidiano, che si prolunga e si raffina nel discorso pratico. “L’opzione scettica di un’uscita dal gioco linguistico di fondate attese, condanne e autorimproveri morali”, se si pretendesse di metterla in pratica nella vita, “distruggerebbe la nozione di sé dei soggetti che agiscono comunicativamente”. “La continuazione dell’agire comunicativo con mezzi discorsivi rientra nella forma comunicativa di vita in cui noi, senza alternative, ci ritroviamo”14. Ma se è vero, come scriveva lo stesso Habermas in Etica del discorso, che personaggi come Nietzsche o Foucault sono, per così dire, usciti dal discorso morale per limitarsi a contemplarlo dall’esterno come etnologi della propria cultura, perché non dovrebbe poter fare lo stesso anche un individuo qualunque?

In estrema sintesi, perciò, la posizione di Habermas si potrebbe riassumere così: le norme del discorso in generale non implicano alcun principio di giustizia. Un principio di giustizia (la pari considerazione degli interessi di tutti) è invece condizione del discorso morale (come in Griffith e Peters). Sul piano teorico, tuttavia, si può anche non dar credito al discorso morale e trarsene fuori, cosa che però non è possibile nella prassi di vita. Quest’ultima tesi però, che chiude il cerchio della giustificazione, ci sembra alquanto dubbia.

 

4.3 Le tesi di Apel e di Calogero si distinguono da quelle di Habermas in quanto stabiliscono un nesso più diretto tra norme del dialogo e norme morali o norme di giustizia.

Nella prospettiva di Guido Calogero la fondamentale norma del dialogo (il dovere di intendere gli altri) viene interpretata in modo estensivo onde includervi anche la norma di giustizia che impone il rispetto degli altri, dei loro interessi, delle loro pretese: perciò, secondo Calogero, dal dovere di intendere “discendono – come scrive nella Filosofia del dialogo – tutti gli altri essenziali ‘diritti innati’ e supremi principi della vita etico-giuridica, perché voler comprendere una persona significa volere che essa possa farsi comprendere; voler capire le sue idee significa volere che essa se le formi; voler tener conto delle sue preferenze significa volere che essa abbia la possibilità di liberamente crearsele; e quindi non c’è forma di attivo rispetto verso ogni possibilità di sua affermazione nella vita che non risulti implicita in questo nostro radicale dovere […]”15.

Nella visione di Apel (che parte, diversamente da Calogero, non dal semplice dialogo, ma dalla argomentazione come pratica intersoggettiva) il rispetto dovuto a ognuno in quanto possibile partner dell’argomentazione implica anche il rispetto e la presa in considerazione delle sue pretese, interessi e bisogni, e quindi il dovere di regolare le interazioni e i conflitti tra pretese diverse secondo norme che tutti gli interessati potrebbero accettare, in quanto partecipanti a un discorso argomentativo imparziale, paritario e orientato al conseguimento di un accordo . “Nell’apriori dell’argomentazione – scrive Apel – è insita la pretesa di giustificare non solo tutte le affermazioni della scienza ma, al di là di queste, tutte le pretese umane (anche le pretese implicite, che sono contenute nelle azioni e nelle istituzioni, degli uomini nei riguardi di altri uomini). Chi argomenta riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della comunicazione che si possono giustificare tramite argomenti razionali (altrimenti la pretesa dell’argomentazione limiterebbe se stessa tematicamente) ed egli si impegna al tempo stesso a giustificare tramite argomenti le proprie pretese nei confronti degli altri”16. Ne consegue quella che Apel chiama la norma fondamentale dell’etica del discorso, la quale “obbliga tutti coloro che, attraverso il processo di socializzazione, hanno conseguito la ‘competenza comunicativa’, a ricercare, in ogni occasione che investa gli interessi (le pretese virtuali) degli altri, un accordo allo scopo di una solidale formazione del volere”17. Da ciò consegue, ulteriormente, il compito di istituzionalizzare il metodo del discorso morale attraverso appropriate norme giuridico-politiche.

Come quella di Calogero, però, anche la prospettiva di Apel si presta all’obiezione (sollevata, come abbiamo visto, proprio da Habermas) secondo la quale il passaggio dal piano delle norme dell’argomentazione a quello delle norme etiche o di giustizia viene, per così dire, dichiarato ma non giustificato. Ma se è vero che l’obiezione, almeno dal mio punto di vista, ha prima facie una sua validità, ciò non vuol dire, a mio avviso, che essa non possa essere superata. E può esserlo, secondo me, se si riflette sul fatto, messo in risalto da uno studioso molto vicino alle posizioni di Apel come Wolfgang Kuhlmann18, che le interazioni argomentative, per le quali valgono le norme di inclusività, eguaglianza e imparzialità connaturate al discorso razionale, costituiscono, per così dire, un “ritaglio” dal più vasto complesso delle interazioni sociali. Se la pratica del discorso argomentativo è un aspetto di un più ampio spettro di pratiche sociali, allora bisogna chiedersi che rapporto vi sia tra le interazioni argomentative e l’insieme delle interazioni sociali. Se si assume, come a me sembra ragionevole, che le interazioni argomentative sono intrecciate e condizionate dal più vasto insieme delle interazioni sociali, allora ne consegue che il rispetto della autonomia di ciascuno come possibile partner dell’argomentazione richiede il pieno riconoscimento dell’autonomia di ciascuno come persona. E ciò vuol dire che ciascuno ha il diritto a essere trattato secondo norme di cui lui stesso potrebbe riconoscere la validità (Kant avrebbe detto: cui lui stesso avrebbe potuto dare il suo assenso) in quanto partecipante a un’argomentazione razionale. Se si volesse esprimere questo punto nel modo “negativo” di Scanlon si potrebbe dire che ciascuno ha il diritto ad essere trattato secondo principi che egli stesso non potrebbe ragionevolmente rifiutare. Nella prospettiva di Apel i termini-chiave sono “pretese” (Ansprüche) e “giustificazione” (Rechtfertigung): se è vero che nella pratica dell’argomentazione (si pensi a una qualsiasi discussione scientifica) ognuno ha il diritto di sollevare i suoi argomenti, e il dovere di prestare ascolto agli argomenti altrui e di giustificare le sue affermazioni, e se è vero che le pratiche argomentative sono intrecciate e condizionate dalle altre forme di interazione sociale, allora ne consegue che il diritto di sollevare le proprie pretese e il dovere di giustificarle nel confronto con le pretese altrui si estende ad ogni soggetto di interazione sociale. Ne deriva perciò la norma morale, o la norma di giustizia, che impone di prendere in paritaria considerazione tutte le pretese che si lasciano argomentare razionalmente e di ricercare un accordo che soddisfi nel modo migliore possibile le pretese di ognuno.

 

5. In modo molto banale e intuitivo l’implicazione tra norme dell’argomentazione e norma di giustizia si potrebbe, secondo me, anche esprimere così: c’è una sorta di incoerenza nel pensare che la discussione scientifica debba essere corretta, paritaria e imparziale mentre invece la società potrebbe anche essere retta da norme poste in modo autocratico e svincolate da qualsiasi obbligo di giustificazione. C’è incoerenza perché è difficile pensare che uomini non liberi possano essere liberi partner dell’argomentazione. Proviamo a chiarire meglio questo punto. Si potrebbe sostenere che una libera discussione scientifica è impossibile in una società dispotica, e non sarebbe difficile addurre argomenti a favore di questa tesi. Ma non è neppure necessario formulare una tesi così impegnativa. Ai nostri fini è sufficiente una tesi meno drastica: ci basta sostenere che la discussione scientifica non è impermeabile al modo in cui sono organizzate le altre interazioni sociali, e che pertanto chi vuole che ognuno sia rispettato come libero partner dell’argomentazione non può non volere che ognuno sia rispettato anche come partner delle diverse interazioni sociali.

Se il ragionamento fin qui svolto funziona se ne può trarre la conclusione che il principio fondamentale di giustizia (secondo il quale nessuno deve essere trattato secondo norme che non potrebbe accettare in quanto partecipante a un discorso argomentativo imparziale e mirante all’accordo) può essere giustificato in quanto costituisce una estensione necessaria di quel principio dell’argomentazione critica che si mostra non rifiutabile sul piano dell’argomentazione trascendentale, in quanto anche lo scettico ne presuppone la validità quando si accinge a demolire ogni convinzione e ogni tesi tramandata. In altri termini: i principi dell’argomentazione critica sono trascendentalmente giustificati, e lo scetticismo rispetto ad essi si autoconfuta perché, non appena inizia a discutere qualcosa, lo scettico li ha già da sempre presupposti. La situazione dello scettico rispetto alla giustizia, invece, è un po’ diversa: la sua infatti è una posizione che sul piano dell’argomentazione critica si può formulare senza al tempo stesso smentirla, che quindi non viene esclusa attraverso un argomento (solo) trascendentale, ma attraverso un argomento differente, quello secondo il quale è incoerente riconoscere la validità di certi principi dentro lo spazio del discorso ma non fuori di esso (perché ciò che sta fuori condiziona variamente ciò che sta dentro). E’ proprio perché la sua confutazione richiede una serie di mediazioni complesse e discutibili che lo scetticismo circa la giustizia può apparire in prima istanza perfettamente sostenibile (sebbene, a mio giudizio, tale non sia quando viene scrutato in tutte le sue implicazioni).



 


1 J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 1997 (6a ed.).

2 Ivi, p. 58.

3 Per una discussione più ampia del problema, si può vedere il mio articolo L’argomentazione confutativa in prospettiva trascendental-pragmatica, in “La cultura”, XXXII (1994) 3, pp. 447-75.

4 Per la più recente formulazione di queste norme, si veda il contributo di Habermas al volume Reflexion und Verantwortung. Auseinandersetzungen mit Karl-Otto Apel, hrsg. von D. Boehler, M. Kettner, G. Skirbekk, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2003: Zur Architektonik der Diskursdifferenzierung. Kleine Replik auf eine grosse Auseinandersetzung, pp. 44-64: 49.

5 R. Forst, Das Recht auf Rechtfertigung. Elemente einer Konstruktivistischen Theorie der Gerechtigkheit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2007.

6 N. Bobbio, Moralità e logica, in “Rivista di Filosofia”, XLII (1951), pp. 72-84.

7 Di A. Ph. Griffith si vedano: Justifying moral principles, in “Proceedings of the Aristotelian Society”, 58 (1957/58), pp. 103-124 e Ultimate moral principles: their justification, in The Encyclopedia of Philosophy, a cura di P. Edwards, vol. 8, New York-London 1967, pp. 177-182. Di R. S. Peters, che sostiene posizioni affini a quelle di Griffith, si veda Etica, educazione (1966), trad. it. presso Silva e Ciarrapico Editori, Roma 1973.

8 Faccio riferimento al saggio di Griffith: Ultimate moral principles, cit., pp. 180-181.

9 R. S. Peters, Etica, educazione, cit., p. 151.

10 Trad. it. Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985.

11 Ivi, p. 96.

12 J. Habermas, Zur Architektonik der Diskursdifferenzierung, cit., p. 53.

13 J. Habermas, Etica del discorso, trad. it. cit., p. 103.

14 J. Habermas, Verità e giustificazione (1999), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001, p. 308.

15 G. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1977, p. 97.

16 K.-O. Apel, Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Farnkfurt a. M. 1973, vol. II, pp. 424-425.

17 Ivi, p. 426.

18 W. Kuhlmann, Reflexive Letztbegründung. Untersuchungen zur Transzendentalpragmatik, Verlag Karl Alber, Freiburg/München 1985, p. 204.


 

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