TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      2008, nº 3


Campo politico e determinismo:

riflessioni sulla teoria sociale di Pierre Bourdieu

Massimo Cerulo

Massimo Cerulo è specializzando presso la Scuola Internazionale di Alti Studi "Scienze della Cultura" San Carlo di Modena. I suoi interessi principali riguardano la sociologia della vita quotidiana, con particolare attenzione alle emozioni, e la sociologia fenomenologica. E' autore di "Sociologia delle cornici. Il concetto di frame nella teoria sociale di Erving Goffman", Pellegrini, Cosenza, 2005.

 

La politica è uno di quegli ambiti che da molto tempo si sono imposti alle scienze sociali. Che venga intesa come scienza, come tecnica o come arte del governare, la politica, in quanto attività sociale specifica e determinata, rappresenta oggetto privilegiato di studio ed analisi da parte delle cosiddette scienze sociali. Il problema però è che quasi sempre queste stesse scienze guardano alla politica e ne studiano le peculiarità in maniera “politica”, senza cioè prendere le distanze da ciò che avviene all’interno ma sovrapponendosi con la loro analisi.

In questo contesto una teoria a mio parere innovativa è quella formulata da Pierre Bourdieu che, nella sua analisi, si prefigge come oggetto d’indagine non la politica in quanto tale, bensì “il campo politico”1

Sorvolando sulla nozione di campo in generale, il mio interesse in questa sede è rivolto alla proposta che il sociologo francese ha formulato riguardo l’approccio sociologico da utilizzare quando si va a studiare l’ambito politico, quando cioè si entra nel “campo della politica” (Boschetti 2003; Bourdieu 20002, 1996, 1992, 1988, 1980a, 1977).

Quotidianamente, secondo il sociologo francese, siamo immersi in politica, nel senso che nei discorsi di ogni giorno, nei programmi televisivi, sui giornali e attraverso gli altri mezzi di comunicazione, sentiamo spesso parlare di politica o, comunque, ascoltiamo soggetti che “fanno” politica. In tal modo maturiamo il sentimento di essere al corrente di ciò che accade nella sfera politica e, in un certo senso, è come se avessimo il potere di fare politica anche noi (almeno nel nostro ristretto ambito socio-famigliare). Ogni giorno quindi, tutto ciò che sentiamo a proposito della politica, tutti i discorsi dei soggetti politici che ascoltiamo, nonostante pensiamo di dimenticarli velocemente, si depositano nel nostro sistema cognitivo, creando così una sorta di abitudine alla politica e di “rappresentazione della politica”. Secondo Bourdieu però, in questo contesto, la questione fondamentale è quella di riuscire a pensare la politica senza pensarla politicamente (Bourdieu 2000).

Il problema è che, per il sociologo francese, la politica è difficile da pensare poiché non la si conosce mai del tutto. La familiarità che pensiamo di avere con la sfera politica (familiarità dovuta principalmente all’azione dei media) rappresenta il principale ostacolo alla conoscenza del mondo politico: si pensa di aver compreso tutto quando invece non è chiaro nulla.

Sarebbe necessario quindi adottare il punto di vista del ricercatore sociale il quale, nell’immergersi in un determinato ambito d’analisi, non si fa trasportare dai suoi luoghi comuni e dai propri modi di pensare, bensì mantiene un rigore teorico-metodologico che gli permette di tematizzare ciò che avviene in quell’ambito senza essere costretto ad usarne il frame corrispondente (in altre parole studiare la politica non significa analizzarla secondo un frame politico, ma conservando il quadro cognitivo proprio dello studioso sociale). Bourdieu riassume questo problema epistemologico nella frase: “penser la politique autrement que politiquement, la penser sociologiquement” (Bourdieu 2000, p. 9). Come chiarisce in seguito:

E’ legittimo che il sociologo intervenga nel mondo sociale, quando l’azione avviene nel mondo sociale. Il problema è che quando si parla di mondo sociale ognuno crede di esserne esperto – già Durkheim sosteneva che: la maggiore difficoltà che incontra la sociologia riguarda il fatto che tutti pensano di essere spontaneamente sociologi. […] Se pensiamo al campo politico, oggi i soggetti che ne fanno parte non si avvalgono di sociologi per le loro analisi, bensì di esperti. E’ una differenza enorme, perché per sociologo s’intende uno studioso che rende conto davanti ad altri sociologi e non soltanto davanti a politici o giornalisti; che rende conto davanti ad altri sociologi che non sono soltanto quelli nazionali. Questa contraddizione fra le esigenze della scienza e le esigenze dell’azione è estremamente importante e, conseguentemente, viene a crearsi in questo modo una grande perdita dell’energia scientifica dei sociologi che non rendono come potrebbero. […] I sociologi distruggono le illusioni (Bourdieu 2000, p. 51, traduzione mia).

E per riuscire a pensare la politica anche sociologicamente il pensatore francese formula la sua proposta sul campo politico partendo da una serie di domande: perché ha senso oggi parlare di campo politico? Che benefici apporta questa particolare prospettiva d’analisi dal punto di vista della comprensione politica? Qual è il rapporto tra il professionista politico e il profano della politica? Come possono essere coniugate cultura e politica? Che rapporto viene a crearsi tra campo della politica, campo delle scienze sociali e campo giornalistico?

Secondo Bourdieu la nozione di campo politico è portatrice di notevoli vantaggi nell’analisi sociologica: ad esempio permette di ricostruire in maniera rigorosa la realtà della politica o del gioco politico; permette inoltre di comparare questa realtà sociale con altre come quella inerente al campo religioso, al campo artistico, ecc. (in fondo il metodo comparativo, nelle scienze sociali, è uno degli strumenti più efficaci in fase di costruzione e di analisi; per Durkheim la sociologia è il metodo comparativo (Durkheim 1895, tr. it. 2001).

Il campo è un microcosmo, cioè un piccolo mondo sociale relativamente autonomo all’interno di un mondo sociale più grande. Al suo interno è possibile rintracciare proprietà, relazioni e processi che non si riscontrano nel mondo globale, e questi fenomeni rivestono nel campo politico una forma particolare perché guidati dall’autonomia:

Un campo è un microcosmo autonomo all’interno del macrocosmo sociale. Autonomo, secondo l’etimologia, vuol dire che ha una sua propria legge, un suo proprio nomos, che detiene al suo interno il principio e la regola del suo funzionamento. E’ un universo nel quale sono all’opera criteri di valutazione a lui propri e che non hanno valore nei microcosmi vicini. Un universo obbediente alle proprie leggi, che differiscono da quelle del mondo sociale ordinario. Chi entra in politica, così come chi entra nell’ambito religioso, deve operare una trasformazione, una conversione e, anche se quest’ultima non gli appare come tale, anche se egli non ne ha coscienza, gli è tacitamente imposta, in quanto un’eventuale trasgressione comporterebbe scandalo o esclusione (Bourdieu 2000, p. 52, tr. mia).

Una sorta di mondo separato quindi, a parte, chiuso su se stesso anche se non completamente. In fondo, secondo Bourdieu, l’universo politico poggia sul principio dell’esclusione: più il campo si costituisce, maggiore è la sua autonomia e la professionalizzazione che viene a crearsi al suo interno. Per il sociologo francese il politico di professione è colui che, in possesso di determinate competenze politiche, rivendica la sua appartenenza al campo e mal supporta l’intrusione dei profani della politica o, peggio, dei tecnici prestati alla politica. Chi entra nel campo politico deve professionalizzarsi, deve cioè far pratica di politica: apprendere la lingua, i trucchi, i rapporti di forza che regolano le relazioni all’interno del campo, ecc. Questa cultura specifica si apprende sul campo e dentro il campo: non si tratta di una cultura puramente accademica, bensì di una serie di conoscenze (sapere e saper fare) trasmissibili soltanto empiricamente. In questo modo i soggetti imparano a comportarsi normalmente ossia politicamente, e a partecipare a quella che il sociologo francese definisce politique politicienne (politica politicante). Anche per questo motivo il campo politico è vietato al profano così come la sfera religiosa viene interdetta al laico dal clericale3. Soltanto i politici hanno competenza per parlare di politica, la politica appartiene loro4. Fondamentalmente quindi, chi detiene potere all’interno del campo è colui che riesce a produrre effetti, ossia il politico di professione5.

Bourdieu sostiene inoltre che gli individui che agiscono all’interno del campo possono dire o fare determinate cose per la relazione che condividono con le altre persone presenti nel campo e non, quindi, per la legittimità che viene loro fornita dagli elettori. Detta in altri termini, la nozione di campo relativamente autonomo obbliga a porre la questione del principio delle azioni politiche e obbliga a dire che se si vuole comprendere ciò che fa un politico bisogna sì analizzare i rapporti che egli intrattiene con i suoi elettori, ma soprattutto va tenuta in considerazione la posizione che egli occupa all’interno del microcosmo, in quanto reale forma di legittimazione delle sue azioni.

E’ evidente in questo caso la tensione che si crea tra la presunta “chiusura” dei politici di professione all’interno del loro campo d’azione e il principio di rappresentatività che li obbliga comunque a mantenere una certa apertura verso l’esterno nei confronti degli elettori rappresentati.

La posizione occupata dal soggetto all’interno del campo politico è assolutamente precipua, secondo Bourdieu, nel comprendere la portata del suo raggio d’azione e, conseguentemente, il potere da lui detenuto:

Il fatto che il campo politico sia autonomo e che abbia una sua propria logica la quale è al principio delle prese di posizione di coloro che vi fanno parte, implica che esiste un interesse politico specifico all’interno del campo che non è automaticamente riducibile agli interessi degli elettori. Vigono degli interessi che si definiscono in base ai rapporti che s’instaurano tra gli individui facenti parte del campo. Il funzionamento di quest’ultimo produce una sorta di effetto di chiusura. Questo è il risultato di un processo: più uno spazio politico si autonomizza, più avanza secondo una sua propria logica, più esso tende a funzionare in modo conforme agli interessi inerenti al campo, più la frattura con i profani aumenta (Bourdieu 2000, p. 58, tr. mia).

All’interno del campo politico (così come all’interno degli altri campi dello spazio sociale) vi sono delle lotte simboliche nelle quali i diversi soggetti dispongono di armi, capitali e poteri differenti tra loro. Per Bourdieu il potere politico è una sorta di capitale reputazionale che è legato alla notorietà, al fatto quindi di essere una persona conosciuta, nota, comune all’opinione pubblica. Il capitale politico è, in quest’ottica, un capitale simbolico legato alla maniera in cui si viene percepiti dall’elettorato.

Tuttavia, come Bourdieu sa bene, ogni campo ha una particolarità6: esso infatti non può mai rendersi completamente autonomo altrimenti scomparirebbe. Nel caso dei politici essi sono obbligati a riferirsi periodicamente ai loro elettori ed alla loro “clientela”, altrimenti non avrebbero ragion d’esistere. Per quanto sia grande il potere detenuto dal soggetto politico egli deve confrontarsi con l’elettorato in maniera convincente, pena la sua scomparsa dal campo stesso.

Fin qui la tesi di Bourdieu.

A mio parere, il discorso inerente il rapporto tra lo studioso sociale, il mondo politico e la verità è alquanto complesso. Ogni studioso avanza delle teorie e delle verità all’interno della sua disciplina di riferimento, basandosi su elementi scientifici a sua disposizione.

Nel caso di una mia recente ricerca qualitativa7, lo studio della sfera politica è stato compiuto da un punto di vista esclusivamente sociologico, attraverso quindi un modo altro di pensare la politica, seguendo quindi le indicazioni di Bourdieu (Balbo 2002; Bourdieu 2000).

Osservare e “vivere” la quotidianità di soggetti che fanno politica di professione può essere la giusta chiave per dimostrare empiricamente le teorie del sociologo francese e, nello stesso tempo, per descrivere dal campo le caratteristiche dello stesso e degli individui che ne fanno parte.

In questo contesto proverò brevemente a verificare alcune delle tesi di Bourdieu precedentemente riportate, a proposito delle caratteristiche del campo politico e della differenza dentro/fuori.

Per poter osservare tali caratteristiche la presenza sul campo è obbligatoria: soltanto immergendosi nelle abitudini dei soggetti è possibile raccontare la loro vita quotidiana e raccogliere così l’invito espresso da Bourdieu: studiare la politica anche sociologicamente.

Da quello che è emerso dalla mia osservazione sul campo, sia uomini che donne, sia giovani che anziani, tutti i soggetti politici intervistati concordano nel definire l’attuale classe politica calabrese come assolutamente autoreferenziale, fine a se stessa, che non dialoga e non coinvolge il cittadino.

Nessuno ha osato dire il contrario. Le cause addotte per spiegare il problema sono diverse:

- in primo luogo la legge elettorale la quale, utilizzando delle liste bloccate, non dà nessun potere di scelta al cittadino, poiché la scelta sull’ordine gerarchico dei nomi da inserire nella lista è già stato fatto a monte, all’interno del campo politico. Concordo con questa opinione. I soggetti quindi, in un’ottica utilitaristica e di sopravvivenza politica, più che convincere i cittadini sono costretti ad essere bravi nel guadagnarsi la fiducia dei rispettivi capi di partito o coalizione poiché saranno loro a scegliere i privilegiati da inserire in lista, a donargli quell’investitura che li autorizzerà all’attività politica. Non è necessario un dialogo fuori dal campo, con il cittadino, bensì è vitale un dialogo all’interno del campo, con coloro superiori di grado al soggetto. Il sistema è ingessato perché coloro che dovrebbero modificarlo sono bloccati nella loro autoreferenzialità. Emerge quindi un problema di selezione dei soggetti che andranno a costituire la classe politica.

- In secondo luogo, questa autoreferenzialità mette il politico in una situazione di comodo. Egli ha il posto assicurato per gli anni in cui durerà la legislatura, può usufruire dei benefici e dei vantaggi che la sua posizione gli permette di avere e, in fin dei conti, non ha bisogno del cittadino. Il politico in fondo, con il sistema oggi vigente, non deve rendere conto a nessuno se non al suo diretto superiore. Al massimo, del cittadino si ricorderà circa 6 mesi prima delle elezioni attraverso un’apertura apparente e scenografica del campo.

- In terzo luogo, l’autoreferenzialità della classe politica dorme sonni tranquilli perché la maggior parte dei cittadini non sono criticamente formati. E’ una cittadinanza poco formata, poco educata e poco consapevole delle scelte fatte all’interno del campo politico. L’opinione pubblica, infatti, accetta passivamente questo stato di cose; non fa nulla di sostanzioso non dico per rovesciarlo ma almeno per scalfirlo, metterlo in discussione. Questo comportamento è dovuto, a mio parere, in parte al sistema clientelare che caratterizza il Mezzogiorno e la Calabria in particolare, e in parte alle difficoltà manifestate dai politici nella comunicazione delle loro azioni alla cittadinanza (Fantozzi 1997; Siebert 1986).

- In quarto luogo c’è una difficoltà da parte dei cittadini di comprendere quello che avviene all’interno del campo: di cosa si discute, chi prende le decisioni, quali priorità vengono seguite, chi comanda chi, ecc. La chiusura del campo permette ai politici di trasmettere illusioni alla popolazione sul loro operato. I cittadini si illudono di conoscere le dinamiche interne al campo quando, invece, ne sono completamente ignari8.

Ma perché nessuno sembra volere per davvero uscire da questa imperante autoreferenzialità?

Per rispondere a questa domanda mi è utile riprendere l’analisi di Bourdieu. Definirei il campo politico come struttura strutturata e strutturante che determina il comportamento e le relazioni tra soggetti, non ammettendo vie di fughe da questo imperante determinismo. Nel comportamento dei politici presenti all’interno del campo è soprattutto la parte passiva del loro habitus9 ad emergere: la loro sopravvivenza all’interno del campo politico è infatti determinata dallo stesso campo che relega la parte attiva dell’habitus (cioè la capacità riflessiva del soggetto e la possibilità di definire le differenti situazioni in cui viene a trovarsi) in una posizione di netta inferiorità. E’ proprio il campo, infatti, ad operare quel lavoro di inquadramento delle situazioni (framework) in cui i politici si trovano ad agire; ed è sempre il campo a fornire loro la chiave (keying) per poter gestire tali situazioni. Nel caso del campo politico l’habitus permette ai soggetti ben poche aperture ed improvvisazioni rispetto al mondo: esso li tiene ben saldi al suo interno, arrivando alla possibilità di prevedere esattamente il comportamento di un soggetto. La sfera riflessiva è minima nei comportamenti dei soggetti osservati, i quali sembrano essere afflitti da una sindrome da immunodeficienza insinuata nel loro organismo dal campo politico.

Per quanto la sfera riflessiva rappresenti per Bourdieu quel fuoco sacro che dovrebbe guidare l’azione umana, all’interno del campo politico di quel fuoco sembrano essere rimaste soltanto le braci.

Inoltre, nonostante l’idea di habitus non sia certo, per il sociologo francese, quella di una gabbia che neghi ogni libertà, il campo politico se non è una gabbia le somiglia molto, con la minima libertà che lascia ai suoi adepti. Chi entra in politica, infatti, deve operare una trasformazione, una conversione e, anche se quest’ultima non gli appare come tale, anche se egli non ne ha coscienza, gli è tacitamente imposta, in quanto un’eventuale trasgressione comporterebbe scandalo o esclusione. Secondo Bourdieu “questo senso del gioco politico è ciò che rende possibile la negoziazione di un compromesso, il silenzio su una cosa che abitualmente si direbbe, la protezione degli amici in maniera discreta, le relazioni con l’opinione pubblica, ecc.” (Bourdieu 2000, p. 60).

Se non si condividono e rispettano le regole presenti all’interno del campo si rischia di esserne esclusi. Forse proprio per questo motivo nessuno dei soggetti intervistati manifesta una grande volontà nel cambiare lo stato delle cose: il campo è fatto così, le sue regole sono chiare e modificarle non è impresa facile.

Per quanto il campo viva in una costante tensione tra apertura e chiusura (non può mai rendersi completamente autonomo dall’esterno altrimenti scomparirebbe), la sua forza vincolante nei confronti di coloro che agiscono al suo interno risulta essere un imperativo comportamentale. O ci si adegua o si è out.

Il campo politico, strutturato e strutturante, vincola così i soggetti al rispetto delle sue regole. Una via di fuga da tale determinismo non sembra essere, al momento, contemplata.


Note:

1 Con il termine campo Bourdieu intende un’area della vita sociale che è caratterizzata al suo interno dalla condivisione fra un certo numero di attori di determinati interessi, di rapporti di forza, di regole, ecc. E’ evidente che nella vita sociale vi sono innumerevoli campi: da quello economico a quello culturale, da quello sportivo a quello sentimentale, e via dicendo, e ognuno di questi è caratterizzato da una sua parziale autonomia e ciascuno di essi dà forma a un particolare tipo di capitale, cioè il tipo di risorsa il cui possesso corrisponde alle posizioni dominanti e per il cui possesso si lotta. L’innovazione che il campo di Bourdieu ha introdotto nelle teorie sociologiche e che lo situa oltre i ragionamenti sulla differenziazione sociale, è che il concetto espresso dal sociologo francese non è un qualcosa definibile aprioristicamente, e non necessariamente ha un nome nel linguaggio ordinario (Bourdieu 1997, 1992, 1980b).

2 Ringrazio Laura Balbo per avermi segnalato il testo.

3 Nel suo paragone tra sfera politica e sfera religiosa Bourdieu chiama in causa Max Weber e, in particolare, la sua Sociologia delle religioni (Weber 1917). Per approfondimenti vedi Bourdieu, 2000, p. 55.

4 Questa chiusura del campo politico su se stesso poi, è aggravata in maniera alquanto bizzarra dal mezzo televisivo e dall’intervento dei giornalisti. Questi, in particolare, entrano a far parte del microcosmo politico in quanto conoscono meglio ciò che accade al suo interno che i princìpi cui la politica dovrebbe realmente ispirarsi. Per Bourdieu quindi, il giornalista, in origine esterno alla politica, viene da essa assorbito, divenendo così una sorta di guardiano dell’ingresso al campo (Bourdieu 2000).

5 Tuttavia, alle spalle di questo, il vero ruolo predominante è giocato dai partiti i quali, attraverso l’investitura dei soggetti, li autorizzano alla politica (Bourdieu 2000).

6 A tal proposito Bourdieu parla di omologia intendendo con questo termine una sorta di autonomia relativa, che indica non l’identità bensì la somiglianza del campo con lo spazio sociale circostante. All’interno del campo, infatti, si riproducono le stesse strutture dello spazio sociale. Il campo quindi non è mai un qualcosa di completamente a sé ma riproduce la struttura sociale (Bourdieu 1997, 1980b).

7 La ricerca in questione, dal titolo “La vita quotidiana del politico di professione”, è stata svolta dal sottoscritto nel triennio di dottorato 2004-2007 presso il Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell’Università della Calabria. Durante 14 mesi di ricerca sul campo sono stati seguiti, utilizzando la tecnica dell’osservazione partecipante (shadowing) e attraverso la somministrazione di interviste discorsive semistrutturate, 16 politici calabresi: 11 uomini e 5 donne.

8 Bourdieu fa una distinzione fra due tipi di criteri di percezione della realtà: politici ed etici. Non tutti hanno un habitus più specificamente politico, che permette di partecipare al “grande gioco della politica”. I criteri etici - caratteristici delle “classi dominate”, quelle cioè meno provviste di capitale economico, culturale e sociale - inducono i soggetti a pensare in modo “non-politico” e a sentirsi esclusi dal “campo del potere” (“spazio pubblico”). La mancanza di strumenti quali, ad esempio, il linguaggio, i comportamenti, le conoscenze (sia nel senso di sapere che di amicizie importanti) induce all’autoesclusione. Si innesca un meccanismo di selezione degli agenti che possono o non possono prendere parte al discorso politico. Questa selezione ha luogo in quanto i soggetti i cui criteri di analisi sono di tipo etico sono portati a vivere un continuo senso di inadeguatezza che li spinge all’autoesclusione. In altri termini, questi individui non si sentono adatti e autorizzati a partecipare alle attività del campo politico (Boschetti 2003; Bourdieu 1979).

Tale ipotesi teorica sembra essere smentita dai risultati emersi dalla mia ricerca sul campo. In Calabria, infatti, anche gli appartenenti alle “classi dominate”, i soggetti cioè con un basso capitale economico, culturale e sociale, si sentono in diritto di partecipare all’attività politica di professione, in nome del perseverare di quei rapporti clientelari che, favoriti dalla crisi dei partiti, veicolano l’ingresso nel campo politico di soggetti “portatori di voto”, ma privi di competenza e sapere.

9 Per habitus Bourdieu intende il modo in cui il soggetto si pone nei confronti del mondo e, di conseguenza, agisce al suo interno. Ogni singolo soggetto matura un proprio habitus nel corso della sua vita, rimodellandolo di volta in volta in seguito alle diverse esperienze che si trova a vivere nel corso della propria vita. L’habitus ha un duplice legame nel suo dispiegarsi: da un lato dipende dalla struttura del campo o dei campi in cui ci si forma, si cresce e si trascorre la vita (legame passivo); dall’altro è il radar principale che permette al soggetto di crearsi una personale percezione del mondo e di assumere determinati comportamenti nella varie situazioni che di volta in volta si trova a vivere e ad agire (legame attivo). Per Bourdieu l’habitus corrisponde alla personalità del soggetto traslata sul versante sociale: corrisponde cioè al modo in cui esso si comporterà, alle decisioni che assumerà, alle pratiche che adotterà nel corso della sua vita in quanto educato in un certo modo, formato secondo particolari e personali precetti, socializzato in una determinata maniera. Nella teoria del sociologo francese l’habitus permette al soggetto aperture e improvvisazioni rispetto al mondo ma, nello stesso tempo, lo tiene ad esso ben saldo. Ciò non significa però che attraverso l’habitus si possa prevedere esattamente il comportamento di un soggetto. Un elemento di incertezza è sempre e comunque presente e Bourdieu sa bene che non è possibile eliminarlo del tutto, in quanto la psiche umana non è in toto analizzabile nel suo dispiegarsi e l’idea di habitus non è certo quella di una gabbia che neghi ogni libertà. L’habitus quindi è un atteggiamento che il soggetto sviluppa adeguandosi o immergendosi nei diversi campi in cui è immerso. Esso può variare nel tempo (anche se fondamentali alla sua formazione restano le prime esperienze di socializzazione: si pensi all’educazione impartita al bambino che lo segnerà poi per tutta la vita: la cosiddetta socializzazione primaria) e può dar luogo a comportamenti e atteggiamenti non sempre prevedibili. Nel corso del tempo l’habitus viene “acquisito” dal soggetto che più che interiorizzarlo lo incorpora in sé: esso entra a far parte della sua identità (Bourdieu 1997, 1992, 1972). All’interno del suo corpo socializzato il soggetto incorpora le istituzioni e le strutture di un particolare mondo (il campo per Bourdieu) attraverso le quali matura una determinata percezione di e agisce nel contesto in questione. Potremmo dire che se il campo rappresenta per Bourdieu la posizione in cui si trova il soggetto agente, per habitus s’intende la sua disposizione ad agire nel mondo. Tuttavia, inteso in quest’ultima accezione, l’habitus può assumere la forma dell’abituale o del dato per scontato. Si agisce in maniera automatica, senza pensare a ciò che si sta facendo in quanto è tale l’abitudine e la pratica nell’azione che non si avverte la necessità di rifletterci sopra (Jedlowski 2005).

Riferimenti bibliografici:

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