TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      2008, nº 3


Ermeneutica e filosofia trascendentale.

Una retrospettiva sulla trasformazione della filosofia di K.-O. Apel

 

Ermelinda Placì

 

Ermelinda Placì, dottore di ricerca in “Etica e Antropologia. Storia e fondazione”, partita da un particolare interesse per la filosofia contemporanea della Krisis, con riguardo ai filosofi del Postmoderno come Nietzsche, Heidegger, ha spostato poi il suo interesse sulla svolta linguistica della filosofia novecentesca e soprattutto sul pensiero di K.-O. Apel. Attualmente continua a lavorare su Apel, rivolgendo i suoi interessi ai problemi dell’utopia e del cosmopolitismo, sotto la guida della prof.ssa Laura Tundo (vicedirettrice del Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali - Università del Salento).

La recente raccolta di scritti del filosofo tedesco, pubblicata in Italia a cura di M. Borrelli,1 offre lo spunto per una riflessione retrospettiva intorno alla trasformazione della filosofia di Apel. È lo stesso Apel a suggerire al lettore di leggere i saggi contenuti nel volume come una «retrospezione autobiografica»2, tesa a rendere sempre più chiari ed espliciti i presupposti teorici che reggono la sua pragmatica-trascendentale. Si tratta di una prospettiva che si nutre del confronto critico e dialettico con autori come Heidegger, Gadamer e Wittgenstein, e anche J. Habermas, con la sua iniziale riflessione sugli interessi conoscitivi3, con la critica dell’ideologia4, con la diversa concezione della filosofia e delle scienze storico-ricostruttive. Una diversità che vede opporsi alla pragmatica trascendentale di Apel, la pragmatica universale del filosofo dell’agire comunicativo. Da questa prospettiva nasce l’apeliana trasformazione semiotica della filosofia trascendentale kantiana, che procedendo oltre Kant, si misura e si confronta con la logica normativa della ricerca di Ch. S. Peirce, per l’elaborazione di una teoria della verità intersoggettiva e consensuale, che, andando oltre la Community of Investigators peirceana, perviene alla fondazione ultima di un’etica del discorso, in cui è prospettata la possibilità, mediante una fondazione trascendentalpragmatica-riflessiva, di una unitarietà di ragione teoretica e ragione pratica, che il dualismo kantiano rendeva impossibile. Si tratta di questioni, che, in quanto richiedono un’approfondita riflessione, qui non possono essere prese in esame, ma su cui i miei studi da qualche anno si sono concentrati e continuano a concentrarsi5.

Si arguisce, così, come per la svolta comunicativa della filosofia trascendentale apeliana, la prospettiva ermeneutica assieme a quella linguistica di critica del senso wittgensteiniana abbiano giocato un ruolo decisivo.

Ermeneutica e filosofia trascendentale, infatti, rappresentano all’interno dell’itinerario filosofico di K.O. Apel due presupposti teorici e due correnti e indirizzi di pensiero imprescindibili6.

In particolare il confronto con i maggiori esponenti della corrente ermeneutica come Heidegger e Gadamer e con la “segreta” filosofia trascendentale di Wittgenstein7 risulta necessaria per chiarire il passaggio da una concezione precomunicativa ad una comunicativa della conoscenza e dell’etica. Passaggio che non avviene in maniera a-critica e a-priorica, ma è successivo all’accoglienza di alcune istanze di questi pensatori e all’esigenza di andare “oltre”.

Così, il confronto che egli ha avviato negli anni Sessanta in una serie di saggi contenuti in Transformation der Philosophie (1973), con l’ermeneutica hiedeggeriana e con la filosofia analitica di Wittgenstein, ha lo scopo di «riprendere e continuare un confronto» tra i due filosofi. Già, in quegli anni, Apel rendeva manifesto come tra i due eminenti pensatori intercorresse un rapporto reciproco. Reciprocità che dava il via contestualmente all’apertura di un confronto tra Analitici e Continentali, tra filosofia analitica e filosofia ermeneutica, che a suo dire, anziché contrapporsi, dovrebbero prender l’una nota dell’altra e viceversa. Quindi, partendo da una critica nei confronti di entrambi i pensatori per «l’insufficiente riflessione del logos ovvero del gioco linguistico discorsivo della filosofia e dei suoi presupposti inaggirabili […] del linguaggio», Apel rintracciava, già allora, «la possibilità di una trasformazione e ricostruzione post-metafisiche della filosofia»8; possibilità, che Apel ha perseguito e continua a perseguire fiduciosamente al fine di salvaguardare la filosofia dalla propria autodistruzione.

Infatti, benché Wittgenstein e Heidegger abbiano compiuto conquiste “convergenti”, consistenti nell’aver reso possibile rispettivamente una svolta ciritico-linguistica e pragmatico-linguistica della filosofia, entrambi si sono assisi su posizioni relativistiche. Così Wittgenstein con la sua teoria dei giochi linguistici ancorati alle diverse “forme di vita” si assesta su posizioni che Apel definisce di relativismo “sincronico”, mentre Heidegger con la sua analitica dell’esserci e, dopo la svolta, con la filosofia della storia dell’essere e delle sue (Lichtungen) rivelazioni-nascondimenti, si assesta su posizioni di relativismo “diacronico”9, che portano in entrambi i filosofi a una certa dimenticanza del logos, vale a dire

a un deficit di riflessione rispetto ai propri presupposti di pensiero, o meglio di argomentazione. In Wittgenstein ciò conduce, evidentemente, allo scambio tendenziale del proprio gioco filosofico linguistico con i giochi linguistici descrittivamente obiettivabili e, al contempo, relativizzabili secondo la contingenza e i modi concreti di vivere che vi stanno dietro. In Heidegger porta ad ignorare metodicamente la propria pretesa di validità filosofico-universale a favore di un’ermeneutica della fattività dell’essere-nel-mondo comprendente; […] a favore della temporalità e storicità del “progetto gettato”; nell’opera tarda, inoltre porta ad un totale storicismo di riduzione del logos filosofico stesso ad evento epocale di radura della storia dell’essere10.

Riallacciandosi a queste conclusioni, Apel, mediante una ricostruzione del pensiero di Heidegger dalla “Prestruttura” dell’essere-sempre-già-nel-mondo, nota come il tentativo del filosofo di operare una trasformazione della filosofia trascendentale kantiana alla fine avvii la filosofia stessa verso una “detrascendentalizzazione”11. Anzi, per Apel, lo stesso tentativo heideggeriano di considerare Essere e tempo come una radicalizzazione della filosofia trascendentale kantiana, comporta una relativizzazione dell’istanza universalistica di legittimazione di validità, perché la fa dipendere non dal logos sovratemporale e sovrastorico del discorso argomentativo, che contrassegna la posizione apeliana di fondazione ultima dei principi del discorso, bensì dalla temporalità e storicità dell’essere. A queste conclusioni, secondo Apel, Heidegger giunge attraverso una approfondita analisi della filosofia kantiana, in Kant e il problema della metafisica (1929), in cui il filosofo di Meßkirch, «procedendo con Kant oltre Kant»12, cerca di mettere allo scoperto le radici della “sintesi trascendentale” della comprensione dell’essere nella “capacità immaginativa”, mediante una interpretazione della reiner Vernunft kantiana primariamente come ragione finita. Così, egli contrappone alla seconda edizione della Critica della ragion pura (1787) la prima edizione, quella del 1781, dove Kant, secondo Heidegger, ha scoperto la “capacità immaginativa trascendentale”, quale facoltà della pura sintesi e, quindi, come “centro mediante”, tra le due fonti basilari della nostra conoscenza: sensibilità e intelletto13. Nel celebre libro, dedicato al filosofo di Könisberg, Heidegger compie una radicalizzazione della finitezza dell’uomo. Secondo l’interpretazione apeliana, lo Heidegger di Essere e tempo (1927), quello prima della svolta (Kehre), ha compiuto una grande scoperta: la prestruttura della comprensione del mondo del Da-sein. Con essa, in particolare, il filosofo avrebbe finalmente superato il dualismo pre-kantiano soggetto-oggetto, la sua originaria separatezza.

Convinzione di Heidegger, infatti, era che compito della fenomenologia doveva essere quello di mostrare l’irriducibilità dell’essere alla “presenza”; ovvero, la sua oggettivazione che, inaugurata da Platone, aveva ereditato tutta la filosofia occidentale. Per Heidegger, l’essere non è l’oggetto intramondano e intratemporale dei positivisti, né il regno delle idee senza mondo e senza tempo, ma l’orizzonte di apertura del mondo, mediante il Da-sein, l’esserci a cui l’essere si dà, tramite, il tempo e che estaticamente si temporalizza. L’intento di Heidegger con l’ontologia di Essere e tempo è anteporre la domanda sull’essere a quella sull’ente, sottraendolo così al dualismo intramondano soggetto-oggetto, semplicemente presente e a portata di mano (Vorhandenheit).

Questo, a suo avviso, è possibile proprio tramite il Da-sein, appunto, inteso come quell’ente a cui è dato interrogarsi principalmente sul senso dell’essere, e che è il progetto-gettato, l’apertura di un orizzonte, che davvero “trascende” ogni possibile oggetto intramondano. L’esserci, infatti, è nel mondo nella forma del progetto, che in quanto è nel mondo, è costitutivamente un poter-essere, le cui strutture esistenziali hanno il carattere dell’apertura e della possibilità. L’esserci è, quindi, essere-nel-mondo in un duplice senso: in quanto possiede la totalità dei significati che costituiscono il mondo prima di incontrare le singole cose e, tuttavia, questo si verifica solo perché è costitutivamente un progetto, che può incontrare le cose, intendendole come possibilità aperte. Ciò che lo caratterizza è, perciò, la struttura precomprensiva del mondo, in ragione della quale egli, appunto, non ha nulla del soggetto della modernità e come esso non si contrappone all’oggetto, «non è mai qualcosa di chiuso da cui occorra uscire per andare al mondo; esso è già sempre e costitutivamente rapporto col mondo, prima di ogni artificiosa definizione tra soggetto e oggetto»14. Questo perché la conoscenza stessa non è più un andare del soggetto verso un oggetto, ma l’articolazione di una comprensione originaria del mondo in cui le cose ci sono già sempre scoperte, mediante interpretazione.

L’interpretazione stessa, perciò, è da intendersi come «l’elaborazione del costitutivo ed originario rapporto col mondo che lo costituisce»15. E’ questo il famoso circolo ermeneutico della teoria dell’interpretazione di Heidegger, che molto deve alla struttura della riflessione trascendentale kantiana e che contiene già in sé quanto intende dimostrare16. La verità stessa è solo in quanto e sino a quando l’esserci è. E l’esserci è nella modalità costitutiva dell’essere-nel-mondo, come pre-comprensione preliminare del mondo, nel quale egli si trova come essere-gettato (Geworfenheit). Il suo rapportarsi al mondo, perciò, non prevede la logica tradizionale dell’occhio di Dio e l’essere stesso, anzi, è l’essere dell’esserci. La prima analisi di Heidegger, dunque, pur radicalizzando la finitezza dell’uomo e il suo limite costitutivo, già operata da Kant17, lascia ancora spazio alla soggettività intesa anche nel rapporto comunicativo e socializzante con gli altri esserci. All’esserci, anzi, è data la possibilità di interrogarsi sull’essere ed è dato ricercare il senso dell’essere. L’esserci è, quindi, preliminarmente apertura al mondo. Per questo Heidegger afferma che: «con l’apertura dell’Esserci, è raggiunto il fenomeno più rigorosamente della verità»18.

Tuttavia, questo, secondo Apel, ha come conseguenza, uno scardinamento della filosofia trascendentale di Kant, che al pari di quella cartesiana riproponeva al suo interno il problema dell’illusorietà o meno dell’esistenza di un mondo esterno.

Un’esistenza che Kant ha assicurato attraverso un mondo mente-dipendente e con l’introduzione di un ulteriore dualismo, quello tra fenomeno e noumeno, nel quale è ancora rintracciabile la distinzione pre-kantiana soggetto-oggetto. Con Kant, infatti, il mondo esterno e la prova della sua esistenza vengono completamente risolti nella unità sintetica dell’appercezione (Io penso). Col Da-sein questa distinzione nell’ottica heideggeriana, viene meno e la stessa idea di soggetto, che, come si diceva, “vede” l’oggetto, mediante l’intuizione mediata e unificata delle regole dell’intelletto, viene privata di senso. Per Heidegger, il vedere ante-predicativo non rimanda ad una visione oculare19, ma alla comprensione preliminare, che sottrae all’intuizione quel ruolo di primaria importanza che invece Kant le aveva assegnato. Se in Kant valeva che «l’intuizione non può mai essere altrimenti che sensibile, ossia contiene soltanto il modo in cui noi siamo “modificati” da oggetti» e «La facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, per contro, è l’intelletto. Nessuna di queste facoltà dev’ essere anteposta all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»20; per Heidegger, invece, sembra che intuizione e intelletto non siano più separati, ma si trovino uniti «come due lontani derivati» nella comprensione preliminare dell’esserci. Anzi, proprio questa concezione, come si diceva, porta Heidegger a prediligere la prima edizione della Critica della ragion Pura (1781) anziché la seconda, quella del 178721 e a rifiutare la deduzione trascendentale come questione giuridica. Il suo scopo è «cercare il fondamento inespresso della logica quale si è configurata nella tradizione»22, ovvero, la temporalità entro cui l’essere si trova già sempre in quanto essere-gettato. L’«“Io penso” non è altro che l’esplicitazione del momento categoriale di un processo che non è affatto intemporale, ma, anzi, intrinsecamente temporale, anche se di tale temporalità nel momento logico del giudizio viene privilegiata la dimensione della semplice presenza e della presentificazione»23.

Attraverso la capacità immaginativa, secondo Heidegger, Kant nella prima edizione della Critica della ragion pura ha riconosciuto nello schematismo trascendentale e, pertanto nel tempo il fondamento dell’intrinseca possibilità della conoscenza ontologica24. Così, egli riconosce all’immaginazione trascendentale, quale “pura sintesi”, la capacità del processo formante «in cui per la ragione finita dell’uomo deve formarsi l’orizzonte di ogni comprensione dell’essere prima di ogni possibile affezione mediante l’essente (la prestruttura del comprendere ermeneutico)». Questa capacità di sintesi dell’immaginazione trascendentale, per Heidegger consiste nell’essere, in qualità di “capacità formante”, capacità di formazione di immagini riferita al presente (facultas formandi), di riproduzione di immagini riferita al passato (facultas imaginandi) e capacità di preformazione delle immagini riferita al futuro (facultas praevidendi). Per Heidegger, quindi, l’immaginazione trascendentale ha un carattere insieme triplice-unitario, consistente nella sua capacità di temporalizzazione della temporalità originaria dell’esserci nelle tre estasi temporali (passato, presente, futuro).

Così, rivisitando Kant, accanto alla temporalità originaria dell’Io penso kantiano, quale temporalità sovratemporale, cioè capacità solo intelligibile e non soggetta al tempo, intemporale, Heidegger ha sostenuto la temporalizzazione della temporalità originaria come possibilità della “pura serie di ora”, quale “quadro schematico” della possibile datità di rappresentazioni oggettuali25.

Il tentativo di Heidegger, perciò, osserva Apel, è stato cercare di dimostrare che

la formazione del “tempo originario” da lui stesso perseguito in Essere e tempo, come condizione di possibilità della comprensione dell’essere; quindi del pensiero umano (della ragione finita) ha portato in pari tempo, al concetto il motivo più profondo della critica della Ragion pura di Kant, pertanto della filosofia trascendentale (in quanto risposta alla domanda sulle condizioni di possibilità dell’ontologia)26.

In altri termini, l’intento heideggeriano è stato trovare il punto culmine della filosofia trascendentale alla luce della domanda di Essere e tempo – ovvero alla luce del “tempo originario” per avvalersene come sostegno per la propria prospettiva filosofica. Ma proprio qui, secondo Apel, la proposta heideggeriana suscita una serie di interrogativi, riassumibili nella domanda: come può la proposta heideggeriana con la sua distinzione tra tempo originario e volgare ancora reggere la distinzione kantiana tra “sintesi trascendentale” e temporalità empirica in quanto temporalità “intratemporale”?27.

Dalla risposta a questa domanda dipende, per Apel, il futuro della filosofia trascendentale. In altre parole, egli ritiene che se Kant nella seconda edizione della Critica ha ritenuto opportuno tenere separate la temporalità dalla risposta alla domanda circa le condizioni di possibilità della validità oggettiva del pensare e del conoscere, lo abbia fatto perché si era reso conto che «la dipendenza (trascendentale!) della validità del pensare e del conoscere da una qualche forma di intratemporalità […] non può nemmeno […] essere pensata come valida, ovvero enunciata»28.

Dimostrazione di ciò è, secondo Apel, la successiva “svolta” di Heidegger, svolta che va interpretata come tacita conferma dell’intepretazione heideggeriana trascendentalfilosofica della distinzione tra temporalità “originaria” e “volgare”. Da essa, infatti, dipende il destino della filosofia, cioè, la sua distruzione. Anzi, proprio in questo intreccio, tra temporalizzazione quasi-trascendentale e intratemporalità, secondo Apel, risiede la sfida della filosofia heideggeriana per la filosofia trascendentale. Una sfida, avverte, l’Autore, che va ad acuirsi in Heidegger per il fatto che

la filosofia del “soggetto trascendentale” – e oltre a ciò, tutta la filosofia in generale come impresa del “logos”, o meglio della “ragione”, che promuove e fornisce i “fondamenti” – essa stessa, in base alla sua validità, deve essere compresa come risultato limitato di un accadimento della storia dell’essere29.

L’epilogo, in sostanza, di questa interpretazione heideggeriana della filosofia trascendentale kantiana si risolve in una distruzione della filosofia trascendentale stessa, in quanto la risposta alla domanda circa le condizioni di possibilità della costituzione del senso e del mondo viene sottoposta al divenire epocale della storia dell’essere. Questo perché, scrive Apel:

il presupposto heideggeriano di una temporalità costitutiva del senso e della storicità della comprensione del mondo risulta inconciliabile con la risposta kantiana circa le condizioni di possibilità di validità universale oggettiva e, dunque, tout court intersoggettiva della comprensione del mondo 30.

Da qui, come appunto si diceva, una detrascendentalizzazione della filosofia trascendentale, consistente nella relativizzazione delle condizioni universali di pretesa di validità e di verità ad accadimenti storico-temporali della storia dell’essere31.

Il confronto critico con la prospettiva heideggeriana pone le basi per un confronto anche con H. G. Gadamer e la sua prospettiva filosofica, definita da Apel, “ermeneutica trascendentale”32.

L’obiettivo, perseguito da Apel, è ancora una volta: restare fedele alla domanda di fondo kantiana relativa alle universali condizioni di pretesa di validità. Una prospettiva che, come più tardi egli stesso nota, lo ha portato ad essere critico nei confronti di Gadamer perché la sua ermeneutica trascendentale non lasciava più «sembrare possibile qualcosa come un progresso nella comprensione normativamente guidato»33.

Il punto di riferimento di questo confronto con Gadamer, ovviamente, è Wahrheit und Methode (1960)34. In essa Apel nota come, da un lato, Gadamer abbia approfondito la domanda metodologicamente ristretta dell’ermeneutica tradizionale «mediante una domanda radical-filosofica (trascendentale)», ma, dall’altro, abbia messo sullo stesso piano le condizioni di possibilità di comprensione del senso con le condizioni di possibilità di validità intersoggettiva della comprensione.

Questo perché in Gadamer, come già in Heidegger, si passa dal concetto di validità e verità universalmente rilevanti al concetto di verità e validità intesi come rivelanti il loro senso nella fattività storica dell’evento-accadimento, perdendo quel valore teorico-conoscitivo e metodologico che i padri dell’ermeneutica tradizionale (Schleiermacher e Dilthey) le avevano riconosciuto. Anche se, Apel non manca di sottolineare, come diversamente da Heidegger, in Gadamer

Quel momento dell’accadimento del senso e della verità, in certo qual modo, il governo normativo del comprendere, non risiede nel futuro (nell’accadimento, riferito alla storicità dell’essere della “radura” in quanto “invio” dell’essere […] ma nel passato, appunto nell’autorità, riferita al contenuto di validità della tradizione culturale da perfezionare mediante l’interpretazione applicativa35.

Proprio verso questo primato dell’autorità Apel è molto critico. Una critica che lo porta ad avversare la tesi gadameriana, secondo la quale comprendere è sempre un comprendere diversamente, a favore della tesi, secondo la quale comprendere è sempre un comprendere meglio. Una tesi che Apel fa risalire alla tradizione kantiano-fichtiano-schleiermacheriana, che lascia un margine di possibilità all’idea critico-emancipativa del progresso non solo conoscitivo ma anche morale36. Una posizione quella apeliana, che Gadamer e molti altri filosofi come A. Wellmer e C. Lafont definiscono utopia idealistica della totale trasparenza37.

In realtà, il filosofo, anche se qui non si sofferma esplicitamente, è ben consapevole che la conoscenza e la comprensione, come pure la comunicazione non potranno mai giungere ad un grado di “trasparenza totale”, cioè, non potrà essere pienamente realizzata, perché mai completamente “neutrale” e libera dal condizionamento di interessi conoscitivi e funzionalistici particolari; tuttavia, di fronte alle possibili distorsioni, ritiene possibile e necessario il riferimento ad un criterio normativo universale, quale garanzia del progressivo e, ciò malgrado, mai completamente raggiungibile ideale regolativo. È questa preliminare assunzione teorica che permette di capire le parole di Apel:

[…] nella misura in cui noi, in generale, comprendiamo in modo giusto, non comprendiamo solo diversamente – a causa della “fusione d’orizzonti” – ma, con ciò e allo stesso tempo comprendiamo anche meglio e, quindi, più profondamente 38.

In questo confronto critico con Gadamer, dunque, Apel sostiene una concezione delle scienze dello spirito in grado di trovare la risposta circa la validità del comprendere non secondo una prospettiva ontologico-temporale del comprendere come accadimento-di-verità, ma secondo la ricerca di idee regolative per un orientamento normativo del comprendere. In questo modo la tesi del comprendere meglio diviene l’ideale regolativo che anima la prospettiva trascendentalpragmatico-discorsiva apeliana che alla comunità reale della comunicazione oppone dialetticamente e controfattualmente la comunità ideale della comunicazione, quale ideale regolativo trascendentalfilosofico-etico di fondazione ultima39.

Questa prospettiva presuppone pure che alla base della ricostruzione ermeneutica delle scienze storico-ricostruttive vi sia un principio universale e normativo. Tale principio è definito da Apel principio di autoappropriazione o autorecupero (Selbsteinholungsprinzip), che oppone alla ricostruzione storico-relativista della scienze ermeneutiche, una ricostruzione universal-fondazionalista. Una ricostruzione, cioè, che ammette e sostiene l’esistenza e la possibilità di mettere allo scoperto attraverso una strategia trascendentalpragmatico-riflessiva le presupposizioni normative delle scienze storico-comprendenti. Presupposizioni normative, cioè, «che non possono […] essere confutate da nessun partecipante col suo atteggiamento in atto senza cadere in una contraddizione performativa»40 e che fanno da perno alla fondazione dell’etica del discorso che, non disconoscendo la fecondità del principio gadameriano di autorità e dell’imperativo jonasiano della sopravvivenza (che ci sia un’umanità)41, contiene e ammette al suo interno un ulteriore principio utopico-melioristico, secondo una prospettiva critico-emancipativa e progressuale della evoluzione culturale dell’umanità42.

È questo un principio molto importante e per lo più trascurato perché sembra contrastare “aporeticamente”43 con il principio che fa da sfondo all’intera elaborazione teorica apeliana della Letztbegründung e con la possibilità dell’esistenza all’interno della Diskursethik di una libera opzione morale. Una opzione che, tuttavia, Apel è costretto ad ammettere nel passaggio dalla semplice elaborazione teorica a quella della applicabilità della Grundnorm nelle situazioni storiche concrete, dove per il suo carattere formale l’etica del discorso sembra incapace di avere una reale efficacia.

Infatti, come già E. Dussel44 ha sottolineato nel suo confronto diretto con Apel, il problema è rendere applicabile la norma universale dell’etica del discorso di fronte al cinico, che si rifiuta di riconoscere l’altro come partner dotato di pari diritti ed è, perciò, teso a seguire non a livello teorico, dove potrebbe incorrere in autocontraddizione performativa, ma nella pratica quotidiana della relazione con gli altri una razionalità strategico-strumentale. Che cosa può l’etica del discorso contro costui?

Ebbene, qui Apel si trova costretto, per limitare e contrastare il “cinico”, gli effetti e le conseguenze delle sue azioni, a fare riferimento ad un principio di mediazione tra principio formale e principio dell’azione (Ergänzungsprinzip), ad una particolare forma di razionalità strategica. Si tratta della razionalità strategico-contro strategica che presuppone già in chi l’assume un atto di scelta morale non fondabile razionalmente o non completamente in maniera razionale.

Cosicché, anche alla base dell’etica apeliana, come in Kant, deve essere ammesso un fondamento soggettivo per l’accettazione della massima della ragione. Accettazione che è indispensabile avvenga sulla base di una libera scelta dell’uomo, «perché altrimenti non sarebbe imputabile» nessuno45.

Così si arguisce che la moralità della scelta non dipende solo ed esclusivamente da un’aprioristica fondazione razionale, ma impone sempre e comunque la responsabilità di ognuno di scegliere se agire moralmente o immoralmente, di fare o non fare riferimento al principio del discorso. «Il problema più generale della valutazione e della decisione responsabile della situazione storica concreta» - scrive Apel

includerà un impegno rischioso che non può venir coperto né dal sapere filosofico né da quello scientifico. È su questo punto – e non nell’atto della presa di partito per l’emancipazione in generale, la quale […] può essere filosoficamente giustificata – che ciascuno deve prendere su di sé una decisione «morale» di fede non fondabile – o non completamente fondabile. Tuttavia anche nella situazione di questa decisione solitaria non si dà palesemente alcun regolativo etico migliore di questo: far valere nella propria autocomprensione riflessiva la possibile critica della comunità ideale della comunicazione46.

Questo, perché, se davvero tutto avvenisse necessariamente e deterministicamente, come sembrerebbe dalla fondazione ultima, l’individuo si troverebbe nella situazione di non poter agire immoralmente.

Dal momento che la vita e la storia ci dimostrano la problematicità di questa scelta, è chiaro che occorre richiamare in causa il ruolo del “soggetto”, la sua “imputabilità morale” e solo in base a ciò si può veramente parlare di responsabilità e ancora, come vorrebbe Apel, di co-responsabilità.

Il concetto di corresponsabilità è un concetto che il nostro filosofo ha elaborato in stretta polemica con H. Jonas e il suo Das Prinzip Verantwortung (1979), in cui l’autore richiamava l’attenzione alla responsabilità di fronte alla crisi ecologica messa in atto dalle nostre azioni collettive e metteva in guardia circa i rischi per l’esistenza e la sopravvivenza futura dell’umanità. Ora, senza entrare nel merito della prospettiva jonasiana, che crea molti più problemi di quanti voglia risolvere47, Apel sostiene l’importanza di una “riformulazione” della responsabilità in senso postconvenzinale. Una riformulazione, cioè, che sia in grado di superare i limiti dell’idea di responsabilità imputabile individualmente.

Questo “superamento”, tuttavia, va chiarito, nell’ottica apeliana, non si identifica con l’“annullamento” della responsabilità individualmente imputabile, ma con una sua ripartizione; volendo indicare con questo termine il fatto che coloro che hanno competenza comunicativa, gli esperti e i rappresentanti politici, devono farsi portavoce, sulla base del principio del discorso della parità di diritti di tutti i membri della comunità dell’argomentazione, di una responsabilità umana solidale nel senso di una corresponsabilità primordiale.

In altre parole, questo concetto postconvenzionale di responsabilità presuppone una etica della responsabilità planetaria, in cui

l’imputazione della responsabilità non avviene ufficialmente e giuridicamente dall’esterno, bensì tramite gli stessi portatori di responsabilità, i quali potrebbero fare a meno di attribuire in modo innovativo anche una responsabilità personale in ragione delle loro nuove idee, delle loro competenze politiche e del loro potere sociale48.

Questo concetto di responsabilità comporta un superamento del concetto tradizionale di responsabilità individualmente imputabile e, sulla base del principio del discorso argomentativo, vuole mostrare come la responsabilità di ognuno sia già sempre presupposta nel quadro delle istituzioni democratiche e come il singolo sia liberato dall’attribuzione di una responsabilità globale interamente a suo carico, senza, ciò malgrado, concedere a lui e a chiunque altro la possibilità di ritenersi completamente dispensato dalla corresponsabilità per le conseguenze delle sue azioni.

Senza ombra di dubbio questa formulazione della responsabilità comporta in relazione all’intera economia del pensiero apeliano della fondazione ultima, come alcuni critici hanno evidenziato, il riferimento a un macrosoggetto “noi”, in cui la singola soggettività sembra rimanere schiacciata dallo hermeneutischer Gott49.

Apel infatti insiste nel sostenere che sul piano della discussione, del “ragionare” su qualsiasi problema oggi gli uomini non possono fare a meno di farsi carico di una responsabilità meta-istituzionale, che costituisce pure l’ovvio presupposto di fondo di una democrazia.

Non è perciò casuale che egli accanto alla fondazione della Parte A della Diskursethik – orientata sull’anticipazione controfattuale di una comunità della comunicazione ideale – ammetta la fondazione della Parte B – ricavata dai rapporti reali del mondo della vita.

Nei rapporti reali, il riferimento alle regole procedurali di un’etica del discorso della corresponsabilità, benché siano ampiamente riconosciute al livello nazionale dagli stati democratici e dalle loro istituzioni parlamentari e a livello internazionale dalle macro-organizzazioni come l’ONU, richiede sempre una correzione e integrazione, in ragione della razionalità strategico-strumentale che assumono spesso le trattative in esse condotte.

Tuttavia, l’aggiustamento di tiro, per così dire, di alcune negoziazioni dal carattere eminentemente strategico, presuppone che il politico rappresentante sulla base della sua decisione solitaria50 in tali sedi faccia ricorso singolarmente al principio di responsabilità umana solidale e ad una strategia morale “a lungo raggio”. Il che presuppone l’ammissione apeliana, sia pure per via negativa, della possibilità di una libera opzione morale51.

Questo significa che la libertà dell’uomo è strettamente connaturata alla sua razionalità ed è in ragione di ciò che l’uomo deve impegnarsi a fare un giusto e corretto uso della propria ragione, perché egli in quanto essere razionale, è un essere relazionale, già sempre situato in una dimensione comunitaria dalla quale non può uscire, pena non solo la caduta in autocontraddizione performativa, ma la perdita della sua umanità, del suo logos distintivo.

In questa maniera la Diskursethik rispetto all’ermeneutica heideggeriano-gadameriana e all’euristica della paura, al principio di responsabilità jonasiani, apporta un di più di senso e di responsabilità che si legano alla stessa situazione dell’uomo come problema etico52, alla sua evoluzione storico-culturale, al suo progressivo tendere verso il meglio, la sua tensione ad approssimarsi gradualmente e indefinitamente alla comunità ideale della comunicazione53. Una comunità ideale che in Apel, contrariamente a Kant, non si trova ipostatizzata in un trascendente regno dei fini, ma deve essere pensata come il fine cui indefinitamente tende quella reale. Quest’ultima deve essere capace di tradurre in prassi la teoria, di agire ed operare concretamente all’interno della storia, mediante una capacità critico-poietico-emancipativa, a cui deve corrispondere non solo l’impegno alla denuncia dell’ordine costituito, ma anche la capacità mediante la tensione ideale ad un graduale miglioramento dello status quo. Solo così, pare, sia possibile, avviarsi verso un progressivo compimento della progettualità incompiuta della modernità e garantire di fronte al nichilismo, l’ospite inquieto dell’Occidente, sfociante in esiti antiumanistici e totalitari, la possibilità di una non ingenua e mistificante riconciliazione dei frammenti dispersi della modernità, del suo patrimonio di conquiste sociali, giuridiche e politiche. Patrimonio da ripensare, oggi, in chiave interculturale e globale, mediante un critico confronto con i sottosistemi funzionalistici di diritto, democrazia, economia di mercato che costituiscono, attraverso quello che Apel chiama “pubblico mondiale ragionante” e la strategia delle “mille discussioni e conferenze”, una base fondamentale per superare i limiti ostativi e le “costrizioni oggettuali”54, che sono intrinseci a questi stessi sottosistemi e che si frappongono all’applicazione dell’etica del discorso.

 

Note:

1 K.O. Apel, Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein Heidegger Gadamer Apel, tr.it. a cura di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2006.

2K.O. Apel, Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein Heidegger Gadamer Apel, in Id., Ermeneutica e filosofia trascendentale in Wittgenstein Heidegger Gadamer Apel, cit., pp. 217-290; cfr. anche M. Borrelli, Filosofia: tra ermeneutica e pragmatica trascendentale. La sfida di Karl-Otto Apel, in K.O.Apel, Ermeneutica e filosofia trascendentale, cit., pp. 13-42.

3 cfr. J. Habermas, Conoscenza e interesse(1968), Laterza, Bari 1983. Sul confronto Apel-Habermas cfr. i saggi contenuti in K.O. Apel, Discorso, verità, responsabilità, Discorso, verità e responsabilità, tr. it. a cura di V. Marzocchi, Guerini e Associati, Milano, 1989; V. Pedroni, Linguaggio e comunicazione nella filosofia di K.O. Apel e J. Habermas, Guerini e Associati, Milano 1999; S. Petrucciani, Etica, politica e diritto: note in margine al confronto Apel-Habermas, in “Fenomenologia e società” n. 1-2, anno XIX, 1996, pp. 169-178.

4 cfr. Aa.Vv., Hermeneutik und Ideologiekritik (1971), tr.it. a cura di G. Tron, Ermeneutica e critica dell’ideologia, Querinaria, Brescia 1979.

5 cfr. E. Placì, K.O.Apel e la trasformazione postmetafisica dell’ etica kantiana. E’ possibile un riferimento alla storia?, in AA.VV., Libertà, evento, storia, EMP, Padova 2006, pp. 257- 284; Id., Libertà e natura umana tra Kant e Apel. Una riflessione in margine, relazione presentata al convegno tenutosi a Lecce 22-24 febbraio 2007, sul tema La libertà tra natura umana e determinismo, di prossima pubblicazione.

6 È importante tenere presente il percorso intellettuale tenuto da Apel a partire dal 1950 quando si è laureato discutendo una tesi su Dasein und Erkennen. Eine erkenntnistheorische Interpretation der Philosophie Martin Heidegger.

7 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964, Proposizione 6.13.

8 K.O. Apel, Wittgenstein e Heidegger. Ripensamento critico e ampliamento di un confronto (1998), in Id. Ermeneutica e filosofia trascendentale, cit., p. 46.

9 Cfr. Ivi, pp. 74-95.

10 Ivi, p.94.

11 K.O. Apel, Costituzione di senso e legittimazione della validità. Heidegger e il problema della filosofia trascendentale (1998), in Id., Ermeneutica e filosofia trascendentale, cit., p. 110.

12 Ivi, p. 118.

13 cfr. I. Kant, Logica trascendentale, in Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 1995, p. 108.

14 G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971, p. 31.

15 Ibidem.

16 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), Einaudi, Torino 1969, p. 250.

17 A. Renaut, Kant aujourd’ hui, Paris, Aubier 1997, pp. 189-192.

18 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p.337.

19 M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, (1942) in Id., Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 159-192.

20 I. Kant, Critica della Ragion Pura (1787), a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1995,d’ ora in poi C.R.P. p. 109.

21 Cfr. V. Verra, Introduzione a M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit. p. XIV: «Heidegger è portato a privilegiare la prima anzicchè la seconda edizione della Critica della ragion pura, perché in essa la dualità dei “ceppi” (senso e intelletto) e il loro rinvio ad una “radice” comune sia pur sconosciuta, è più netto, mentre nella seconda si afferma una sorta di prevalenza dell’intelletto sulla sensibilità».

22 Ibidem.

23 Ibidem.

24 K.O. Apel, Costituzione di senso e legittimazione della validità. Heidegger e il problema della filosofia trascendentale, cit., pp. 118-120.

25 Cfr. Ivi, p. 123.

26 Ivi, p. 122.

27 Ivi, p. 125.

28 Ivi, p. 126.

29 Ivi, p. 130.

30 Ivi, p. 131.

31 Ivi, pp. 143 e ss.

32 K.O. Apel, Idee regolative o accadimento di verità? Sul tentativo di Gadamer di rispondere alla domanda intorno alle condizioni di possibilità della comprensione valida (1998), in Id., Ermeneutica e filosofia trascendentale, cit., p. 173.

33 Ivi, p. 174.

34 Cfr. K.O.Apel, Recensione a Wahrheit und Methode, in «Hegel-Studien», II, 1963, pp.314-322; cfr. anche in Aa.Vv., Hermeneutik und Ideologiekritik, cit., i saggi di Apel, Habermas e C. Von Bormann, rispettivamente alle pp. 25-59, 60-70, 95-130; H. Albert, Per un razionalismo critico (1969), Il Mulino, Bologna 1973; E. Agazzi, Dopo Francoforte, dopo la metafisica. Habermas, Apel, Gadamer, Liguori, Napoli 1990; J. Habermas, Logica delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 218 e ss.

35 K.O. Apel, Idee regolative o accadimento di verità?,cit., pp. 175-176.

36 Ivi, p. 177.

37 K.O. Apel, Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna, Pellegrini, Cosenza 2005.

38 K. O. Apel, Idee regolative o accadimento di verità?, cit., p. 177.

39 Ivi, pp. 195-197.

40 Ivi, p. 209.

41 K.O. Apel, Responsabilità oggi. Soltanto un principio di preservazione e autoeliminazione oppure pur sempre di liberazione e realizzazione dell’umanità?, in C. Bonaldi (a cura di), Hans Jonas, il filosofo e la responsabilità, Alboversoio, Milano 2004, pp.69-101; H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993, p. 54

42 Ivi, pp. 212-216. cfr. anche K.O. Apel, Lezioni di Aachen e altri scritti, Pellegrini, Cosenza 2004; M. Borrelli, Ethique et émancipation chez Karl-Otto Apel, in “Topologik.net”, n. 2, anno 2006.

43 M. Borrelli, L’aporetica come struttura di fondo dell’etica del discorso?, in Aa.Vv., Laudatio in honorem Karl Otto Apel, a cura di M. Borrelli – M. Kettner, Pellegrini, Cosenza 2007, pp.11-16.

44 K. O. Apel - E. Dussel, Etica della comunicazione ed etica della liberazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 1999.

45 I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 24.

46 K. O. Apel, L’Apriori della comunità della comunicazione e i fondamenti dell’ etica. Il problema della fondazione razionale dell’ etica nell’ epoca della scienza, in Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, p. 268. Il corsivo è mio. Sul concetto di co-responsabilità cfr. anche L.Tundo Ferente, Moralità e storia. La costruzione della coscienza etica moderna, Bruno Mondatori, Milano 2005, pp. 235-241.

47 cfr. Aa.Vv., Hans Jonas. Natura e Responsabilità, a cura di P. Pellegrino Milella, Lecce 1995.

48 K. O. Apel, Il concetto di corresponsabilità primordiale quale presupposto per una macroetica planetaria, in M. Mori, Filosofi tedeschi a confronto, Il Mulino, Bologna 2003, p.44.

49 F. Botturi, Etica procedurale ed etica comunicativa in Karl Otto Apel, in Aa. Vv., Concezioni del Bene e teoria della giustizia, a cura di G. Dalle Fratte, Armando Editore, Roma 1995, pp. 55-92; H. Albert, Transzendental träumereien. Karl-Otto Apel sparachspiele und sein hermeneutischer Gott, Hamburg 1975; Id, Le pretese della pragmatica trascendentale alla luce del conseguente fallibilismo, in Aa.Vv., Metodologia delle scienze sociali, nella collana “Quaderni interdisciplinari”, a cura di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza 2000, pp. 11-56.

50 Cfr. K. O. Apel, L’Apriori della comunità della comunicazione e i fondamenti dell’ etica, cit., p. 268, nota 127: «Anche quando si tratta d’una importante decisione politica, la sua responsabilità dovrà essere assunta dai “singoli”, i quali possono sì essere solidali con dei gruppi, ma non possono rimettere la decisione al collettivo. […] l’ individuo può, in quanto argomentante, già sempre essere solidale con la comunità ideale della comunicazione. Egli dovrebbe presupporre questa solidarietà trascendentale e tenervi fermo anche quando – nel rischioso impegno politico-esistenziale – egli è solidale con un gruppo reale della società».

51 La svolta interosggettiva trascendentalpragmatico-autoriflessiva apeliana avviene sulla scorta di alcuni presupposti teorici e sulla base di un loro superameno (logica-semiotica di Peirce, l’ermeneutica “psicologizzata” di Schleiermacher e Dilthey, la teoria dell’interpretazione di J. Royce, la teoria degli atti linguistici (K. O. Apel, Scientismo o ermeneutica trascendentale? in Comunità e comunicazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1977, p.160). Interessante in merito è la critica rivolta ad Apel da V. Marzocchi sul test dell’autoconsistenza riflessiva della ragione, in Criticità e/o fondazione filosofica?Dalla critica della ragione strumentale (Horkheimer e Adorno) alla giustificazione della razionalità comunicativa (Habermas, Apel e oltre), in “Fenomenologia e società”, VII, 2, 1994, pp.117-138.

52 K.O. Apel, Lezioni di Aachen, cit., pp.121-147.

53 Cfr. Ivi, p. 250; E’ l’etica dell’ideale comunità della comunicazione un’utopia?, in “Rinascita della scuola”, n. IX, 1985, pp. 324-326. Ciò è confermato anche da R. Mancini, Linguaggio e etica, Marietti, Genova 1988, pp. 172-173: «[…] l’etica comunicativa ospita senza dubbio in sé una dimensione utopica legata alla necessità dell’anticipazione controfattuale della comunità ideale della comunicazione. La realizzazione di una situazione comunicativa ideale mobilita il nostro impegno alla condizione preliminare che essa sia ragionevolmente perseguibile Ma tale perseguibilità non è concepita come il possibile avvento di una condizione definitivamente liberata da ostacoli e violazioni rispetto alla norma fondamentale dell’etica del discorso. Apel la considera piuttosto come un ideale regolativo nell’accezione kantiana, cioè come qualcosa cui non può mai corrispondere nulla di empirico, ma cui ci si può approssimare costantemente».

54 K.O. Apel, Lezioni di Aachen, cit., pp.221-259.


 

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2008, n°3