TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      Numero 4/2008


 

Armin Bernhard

 

La permanenza della pedagogia nera

e il principio antiautoritario nell’educazione*

“C'era qualcosa in lui, qualcosa di selvaggio, di sregolato, di barbarico, che bisognava prima spezzare; una fiamma pericolosa, che bisognava prima calpestare e spegnere. L'uomo, come la natura lo crea, è qualcosa di imprevedibile, di impenetrabile, di pericoloso. È un fiume che erompe da monti sconosciuti; è una selva primordiale che non ha né vie né ordine. E come una foresta deve essere sfoltita e ripulita e chiusa di forza entro confini precisi, così la scuola deve spezzare, vincere, chiudere di forza entro limiti precisi l'uomo naturale; il suo compito è di trasformarlo in un utile membro del consorzio umano secondo principi approvati dall'autorità; di destare in lui le qualità il cui compiuto sviluppo verrà poi coronato dall'accurata disciplina della caserma”.

(Hermann Hesse, Sotto la ruota)

Non a caso l'educazione antiautoritaria nasce dopo il 1945 nel contesto sociale del movimento del '68. L'agenda politica di questo movimento consisteva infatti in una revisione radicale del restaurato ordinamento sociale. Il movimento del 1968 rappresenta una rivolta antiautoritaria che appunto perché è rimasta sul piano della rivolta non ha potuto implementare durevolmente i propri principi nella società. Così la lotta contro la “pedagogia nera”, contro la quale ai suoi tempi si era già battuta, senza successo, la Reformpädagogik [“pedagogia riformista”] d'impronta democratica o socialista, è rimasta anche nel contesto della rivolta antiautoritaria un fuoco di paglia, mentre alcuni aspetti della critica sono stati assorbiti dal sistema capitalistico e utilizzati per una liberalizzazione dell'educazione funzionale all'economia. È rimasto però il problema dell'autoritarismo, che si è affermato nella società in forme mutate, più sottili e quindi più difficili da individuare ed attaccare. Tutto ciò che comunemente si associava al concetto di 'pedagogia nera' continua ad operare in una forma modificata e più sottile, che non è stata identificata per quello che è: l'oppressione e negazione massiccia dei bisogni infantili di sviluppo – anche dopo il 1968.

 

1. Pedagogia nera – il punto d'attacco

Cominciamo determinando un concetto che, sebbene sia stato introdotto solo alla metà degli anni '70, circoscrive categorialmente lo stato di cose contro cui si appuntano gli attacchi dell'educazione antiautoritaria: la pedagogia nera – il lato oscuro dell'attività pedagogica, l'attualizzazione – non sempre consapevole – della fondamentale premessa antropologica della “cattiveria” del bambino. Come categoria analitica il concetto di pedagogia nera serve a mettere in luce “i conflitti rimossi e negati” che sono uno dei fattori che condizionano la storia dell'educazione [Rutschky 1977, p. XV]. Appoggiandosi agli studi di Norbert Elias sul processo della civilizzazione e ai lavori di Philippe Ariès sulla storia dell'infanzia, e utilizzando contemporaneamente i dati delle ricerche etnopsicoanalitiche la sociologa Katharina Rutschky ha ricostruito la pedagogia moderna, borghese in riferimento a quelle sue intrinseche costrizioni che nei suoi documenti ufficiali sono tabuizzate. La “figurazione educazione” si rivela un elemento fondamentale nel processo di civilizzazione delle società occidentali. Rutschky condivide la premessa di Elias secondo cui i processi individuali e collettivi di civilizzazione sono strettamente intrecciati. Caratteristica della “psicogenesi dell'habitus adulto” [ivi, p. XXXIII] è in particolare – come ha constatato Norbert Elias per il processo di civilizzazione - la trasmissione di standard comportamentali sempre più rigidi, organizzata mediante la repressione e canalizzazione di pulsioni e bisogni spontanei. Questa regolazione del comportamento che nega l'istintualità spontanea e che nella storia delle società moderne spesso si attua nell'educazione in forme brutali e apertamente repressive, non rappresenta però un processo di cui la generazione adulta sia consapevole: in larga parte esso si svolge appunto in maniera inconsapevole [Elias 1997, p. 323 s.].

La figurazione “educazione” può essere letta, secondo Rutschky, come “prosecuzione del processo di civilizzazione”, dato che in essa le “costrizioni della civilizzazione” si manifestano “nell'antitesi di adulto e non adulto”[1977, p. LX]. Con l'internazionalizzazione delle costrizioni esterne e e la loro trasformazione in un sistema interno di controllo il fenomeno della paura diventa un aspetto fondamentale della figurazione educativa. Secondo la teoria della pedagogia nera i pedagogisti motivano la necessità dell'educazione partendo dall'esperienza educativa che essi stessi hanno subita e nel corso della quale si sono assoggettati alle pretese culturali della società. Inconsciamente l'educatore rielabora nella costrizione educativa i conflitti non superati della sua stessa infanzia;  i suoi assunti e principi non sono nient'altro che una “proiezione di desideri aggressivi, sessuali e regressivi che vengono riattualizzati nel rapporto col bambino” [ivi, p. LXII]. Nell'atto educativo l'educatore ripete la situazione di paura generata dalle pretese del processo di civilizzazione, questa volta però in una condizione più favorevole: egli stesso può ora assumere la posizione dell'istanza punitiva del super-io, illudendosi di poter dominare le proprie paure trasmettendole alla generazione successiva.

Alice Miller riprende il concetto di 'pedagogia nera' introdotto dalla sociologa Katharina Rutschky curvandolo nel senso della psicologia del profondo. Secondo la psicoanalista svizzera le misure repressive proprie dell'educazione fanno parte di un “meccanismo ubiquitario”,  di una tendenza cioè che è comune a tutte le formazioni sociali e che consiste nell'"esercizio di potere dell'adulto sul bambino”[1983, p. 32]. La pedagogia nera riproduce l'oppressione da generazione a generazione occupando e manipolando i potenziali psicologici dei bambini in modo tale che questi soffocano i propri impulsi vitali; la perdita di empatia che ne è la conseguenza fa poi sì che essi, divenuti a loro volta genitori, trattino i propri figli in maniera ugualmente repressiva. Alice Miller identifica i meccanismi psichici centrali di questo processo nelle due strategie della scissione e della proiezione. Grazie al meccanismo della scissione le cosiddette debolezze della propria “natura” - emozioni, empatia, paura ecc. - vengono sistematicamente represse, i suoi stimoli e sentimenti vengono rimossi senza riguardo [ivi, p. 100]. Complementare alla scissione è il meccanismo psichico della proiezione: quanto più perfetto è stato il lavoro di rimozione, tanto più facile diventa indirizzare l'odio su un “oggetto” al quale vengono attribuite esattamente quelle parti scisse e rimosse del nostro sé che il processo educativo nella nostra infanzia ci aveva costretto ad espellere. L'esempio con quale viene illustrato il meccanismo psichico della proiezione sono la persecuzione e lo sterminio degli ebrei in Germania [ivi, p. 100s.].

I mezzi menzionati da Alice Miller come componenti del repertorio repressivo della pedagogia nera sono, accanto ad una educazione alla durezza e alle punizioni corporali, l'umiliazione, la privazione dell'amore, la paura, la manipolazione, la derisione, l'inganno [ivi, p. 77]. La pedagogia nera non s'identifica affatto con l'uso diretto della violenza, ma comprende anche tutto il complesso dei metodi psicologici che servono ad imporre un rapporto di potere; essa include un “controllo totale del materiale psichico” che, come significativamente osserva Peter Brückner, “non solo nell'era nazionalsocialista era il segreto dell'educazione praticata nei ceti medi” [Brückner 1980, p. 14]. La persecuzione del bambino è inevitabile, secondo la tesi di Alice Miller, fin quando gli adulti non riconoscono questi meccanismi della pedagogia nera che essi stessi recano in sé e trattano a loro volta i bambini con l'“indole” che la pedagogia nera ha imposto alla loro personalità [Miller 1983, p. 77].

Interessante è il fatto che Alice Miller psicologizzi le cause della pedagogia nera, isolandole quindi dai processi della riproduzione sociale e riducendole al movente dell'esercizio di potere dell'adulto sul bambino. L'obliterazione della componente sociale delle forme storiche dell'educazione, che hanno il loro fondamento nelle costrizioni della riproduzione sociale, e la conseguente separazione dei meccanismi psichici dal quadro sociale in cui si inseriscono riducono le potenzialità esplicative dell'approccio psicodinamico, che peraltro è di grande utilità per analizzare e comprendere i processi educativi e pedagogici. Alice Miller separa la storia dell'educazione dalle costrizioni imposte dalla riproduzione di formazioni sociali storiche, per cui oggetto della critica non sono più le concrete forme educative quali si realizzano nel quadro di queste costrizioni sociali, ma l'educazione in generale come fenomeno universale di pedagogia nera. Su questa base l'unica alternativa possibile è la posizione antipedagogica [ivi, pp. 128 ss.], che però è cieca per la dialettica dell'evoluzione storico-sociale e non ha quindi la possibilità di identificare gli effettivi lati oscuri della pratica educativa attuale.

 

2.Autorità – il punto di partenza dell'educazione antiautoritaria

I modelli educativi antiautoritari nascono come parte di un più ampio movimento politico antiautoritario, “in un paese che non conosce una tradizione vivente di disubbidienza, nel quale erano in larga misura assenti tanto l'habitus del cittadino quanto il coraggio dell'insubordinazione” [Brückner 1984, p. 150]. L'autorità è il bersaglio centrale dell'educazione antiautoritaria, che è l'espressione sul piano pedagogico di un movimento politico che pone in questione la legittimazione di strutture di potere e di dominio accettate come ovvie. Essa è parte di una cultura di protesta i cui semi furono gettati già all'inizio degli anni '60 con la lotta contro le leggi eccezionali (poi approvate nel 1966) e il lavoro della nascente opposizione extraparlamentare. Il quadro politico-sociale entro il quale nascono i primi inizi di un'educazione antiautoritaria è la fase di restaurazione delle strutture sociali e politiche nella Germania occidentale, dopo la capitolazione alla fine della seconda guerra mondiale. La dinamica del conflitto sistemico durante la guerra fredda e l'inserimento della Germania federale nel sistema difensivo dell'Occidente agevolarono una restaurazione del “nuovo” ordinamento sociale che riciclava elites discreditate ed esistenti strutture autoritarie e gerarchiche, rendendo così impossibile una democratizzazione radicale della società. Con il fallimento dei programmi di denazificazione e rieducazione fu procrastinata anche la problematizzazione di strutture autoritarie. Dal punto di vista del movimento d'opposizione degli  studenti il problema dell'autorità non era semplicemente un fenomeno legato al fascismo, ma era sistematicamente connesso con il modello economico delle società borghesi-capitalistiche, in quanto queste sono dominate dall'imperativo di assicurare la continuità dei “ rapporti di produzione sulla base di determinati rapporti di proprietà” e a questo scopo devono ottimizzare permanentemente il loro “apparato di repressione irrazionale” [Dutschke/Käsemann/Schöller 1968, p. 7]

Iniziative educative antiautoritarie si sviluppano nel 1967-68, quando il movimento di protesta studentesco è alla ricerca di forme collettive di vita e di azione che costituiscano un'alternativa sociale allo strutturale isolamento degli individui nella società capitalistica della concorrenza e del benessere. Contro la famiglia nucleare borghese e l'orientamento individualistico del modello economico di società i modelli favoriti furono l'abitare collettivo e le comuni, nelle quali dovevano essere sperimentate in certo qual modo nuove forme di educazione. La necessità di un rinnovamento radicale delle pratiche educative conseguiva tra l'altro dalla critica delle condizioni miserabili dei giardini d'infanzia, dell'autoritarismo che in larga misura caratterizzava il lavoro nelle istituzioni educative, della massiccia discriminazione sociale dei figli dei lavoratori per effetto di meccanismi di socializzazione legati all'appartenenza di classe. Un impulso decisivo all'educazione antiautoritaria venne però dal bisogno dei militanti del movimento studentesco di orientamento socialista di  prendere parte attiva alle lotte delle loro organizzazioni contro lo sfruttamento capitalistico e l'imperialismo [v. al proposito Bott 1970; Paffrath 1972, pp. 33 ss.; von Werder 1986]. Il primo kinderladen [“comune infantile”], il Kinderladen Stuttgart,  cominciò a lavorare già nel settembre 1967. Ma è col convegno sul Vietnam tenutosi a Berlino Ovest dal 18 al 21 febbraio 1968 che cominciano effettivamente lo sviluppo e la sperimentazione di un'educazione antiautoritaria, povera di elementi repressivi e nello stesso tempo consapevolmente politica. Il bisogno, in particolare da parte delle donne, di prendere parte attiva ai processi decisionali politici e la conseguente necessità di provvedere ai bambini fecero nascere l'idea di una nuova forma di educazione che doveva essere elaborata da ambedue i sessi. Era l'applicazione al campo educativo del principio del movimento del '68 secondo cui “il privato è politico”. Successivamente non solo sorsero una serie di kinderladen nelle grandi città, ma anche istituzioni educative tradizionali recepirono e implementarono nella loro prassi molte premesse, conoscenze e principi dell'educazione antiautoritaria.

La ricostruzione delle premesse del movimento per l'educazione antiautoritaria prova che oggetto della critica non era affatto solo l'autorità personale, ma il suo radicamento strutturale nei vari settori e dimensioni della compagine sociale – l'autorità come espressione di una posizione di potere sociale che elude il problema della propria legittimazione ed esige che la soggettività umana  si sottometta docilmente alle sue direttive. Non si trattava cioè di un fenomeno pertinente a relazioni attuali di comunicazione tra gli uomini nel quadro di un rapporto gerarchico, ma di un problema fondamentale radicato in profondità nella struttura storico-sociale. Come fenomeno storico l'autorità quindi doveva essere stata costruita e trasmessa in processi di scambio intergenerazionali. I modelli psichici da un lato dell'attribuzione di potere a persone, istanze e oggetti e dall'altro della sottomissione a direttive autoritarie erano quindi il risultato di processi storici di socializzazione. L'autorità non legittimata non era solo il problema delle strutture sociali che ne sono alla base. L'acquiescenza all'autorità era una caratteristica della personalità acquisita in processi di socializzazione e come tale non poteva essere superata solamente con la lotta contro strutture politiche repressive.

Chiaramente l'esperienza del fascismo è stata un impulso fondamentale nella nascita dei progetti di un'educazione antiautoritaria – la detabuizzazione del passato fascista era infatti una delle rivendicazioni centrali del movimento politico di protesta. A fronte della volksgemeinschaft [“comunità nazionale”] fascista, ma a fronte anche di un socialismo di stato autoritario e di una democrazia meramente formale nella società capitalistica, venne elaborata la prospettiva di una società non repressiva, libera e radicalmente democratica [v. anche Negt 1995, pp. 291]. Questa richiedeva una trasformazione profonda della “natura” umana nel senso di una ristrutturazione psichica del tipo umano tradizionale, lo “sviluppo di disposizioni caratterologiche che impediscano che un'altra volta gli individui si conformino passivamente alla soluzione fascista delle contraddizioni sociali” [von Werder 1972, p. 12].

D'interesse sono qui per noi in primo luogo i progetti politici dell'educazione antiautoritaria di orientamento socialista e il loro tentativo di sviluppare una prassi educativa antirepressiva richiamandosi da un lato alle teorie critiche della società, e rifacendosi dall'altro alla sinistra freudiana e a pedagogisti socialisti come Otto Rühle, Alice Gerstel-Rühle, Siegfried Bernfeld, Wera Schmidt, Otto Felix Kanitz e altri(1). La presa di distanza da un'educazione borghese di stampo autoritario non si riferiva però affatto soltanto alle forme di autorità ereditate dal “feudalesimo patriarcale” [Erlinghagen 1976, p. 151], ma si focalizzava piuttosto sulla clamorosa discrepanza nel cosiddetto “mondo libero” tra gli ideali proclamati e la realtà. Già la rivolta antiautoritaria del 1968/68 non si era per nulla limitata alla critica dell'autorità personale ma aveva già messo in questione lo scarto tra rapporti sociali corrompenti e l'esigenza di una realizzazione concreta della democrazia. La valutazione negativa della società autoritaria non dimenticava i lati sottilmente repressivi del processo di socializzazione e già si cominciava a riconoscere nel consumismo sfrenato indotto dall'estetizzazione della merce e dall'industria culturale un problema di autorità.

Tuttavia il fulcro dell'educazione antiautoritaria motivata politicamente è costituito dalla critica radicale di un rapporto tra le generazioni caratterizzato dall'autorità. Al centro dei progetti di trasformazione si trovano conseguentemente la famiglia come agenzia di socializzazione ed i processi di socializzazione ed educazione che in essa si svolgono. Nella misura in cui l'istanza socializzatrice della famiglia esercita  senza attriti la sua funzione di riprodurre i rapporti sociali, le “basi, i metodi educativi e gli effetti di un'eterodirezione autoritaria e repressiva” [Hochheimer 1972, p. 65] diventano temi del movimento di protesta antiautoritario. Anche se nella mentalità degli adulti, nelle loro azioni, nei loro modi di comportarsi il rapporto intergenerazionale ha un carattere autoritario, questo rapporto non costituisce però la sede originaria  dell'attivazione di potenziali repressivi; questi nascono invece dalle necessità degli specifici sistemi di potere di una concreta formazione sociale, che utilizzano la famiglia e i suoi atti educativi al fine della propria riproduzione. Sotto questo aspetto il potere genitoriale non nasce da un interesse che queste persone di riferimento primario avrebbero alla inferiorizzazione dei loro figli, al soddisfacimento di un bisogno di potere, come ritiene, riduttivamente, Alice Miller; la costituzione del potere genitoriale è invece connessa al sistema sociale stesso il quale – secondo la diagnosi del movimento antiautoritario - è interessato a ”sudditi, anime, funzionari e forze di lavoro supini all'autorità”. In queste aree strutturate dal potere i genitori diventano “funzionari dell'autocrazia” [Hochheimer 1972, p. 68].

Anche se comunemente l'educazione antiautoritaria viene spesso equiparata ad una educazione permissivista o all'antipedagogia, in realtà essa – come suggerisce già lo stesso concetto - non rinuncia affatto alla fondamentale premessa antropologica della necessità dell'educazione. L'alternativa al carattere affermativo dell'educazione borghese non può essere il superamento dell'educazione, ma solo la ristrutturazione umana dei suoi principi e della sua prassi. L'uomo nuovo non può nascere spontaneamente da un processo indifferenziato di socializzazione, ma non può neppure essere creato a forza. Come ha scritto Wolfgang Hochheimer nel 1969, un nuovo modello educativo dovrebbe orientarsi verso un essere umano caratterizzato “da un'autonomia allargata, fino alla capacità di pensare liberamente, da una repressione ed eteronomia ridotte, da una più grande serenità, da un'intatta capacità di essere felice e di comunicare con maggiore libertà e sincerità” [Hochheiner 1972, p. 90].

 

3. Basi di un'educazione antiautoritaria

Tipico del movimento per l'educazione antiautoritaria è l'utilizzazione di categorie ed elementi teorici della psicologia del profondo. Approcci di carattere psicoanalitico - Sigmund Freud ma soprattutto Wilhelm Reich ed esponenti dell'educazione socialista che si rifanno alla teorie di Freud e di Adler – sono messi in combinazione, più o meno radicalmente rielaborati, con analisi della teoria critica della società ed applicati al campo dell'educazione. La teoria critica di Adorno, Horkheimer e Marcuse, nonostante il loro rapporto spesso conflittuale con la protesta studentesca, ha avuto un effetto durevole sulle analisi e i programmi del 1968 riguardo al collegamento sistematico tra teoria sociale e soggettività. La teoria critica non ha soltanto fornito gli strumenti per analizzare la struttura della formazione sociale borghese-capitalistica, ma ha anche creato un clima che “ha acuito la sensibilità per la barbarie e la violenza ed ha stimolato ad occuparsi della propria natura interiore, della propria struttura pulsionale e della propria soggettività” [Eisenberg/Thiel 1973, p. 47]. Approcci ricavati dalla psicologia del profondo sono convincenti in quanto, col fatto di portare in gioco le strutture profonde della psiche umana e la loro dinamica, forniscono degli strumenti per  esplorare – in un primo momento sul piano della teoria - le componenti intrapsichiche delle strutture caratteriali autoritarie e analizzare l'interazione tra istanze esterne dell'autorità e meccanismi intrapsichici. Le acquisizioni di queste ricerche sull'interazione tra rapporti sociali e strutture psichiche – a partire soprattutto dagli studi della teoria critica su autorità e famiglia [Horkheimer 1987 (1936)] – ebbero per il movimento per l'educazione antiautoritaria un significato eminentemente pratico: si trattava, tenendo conto delle conoscenze fornite dalla psicologia sociale sulla genesi del carattere autoritario, di liberare bambini e genitori e tutti i partecipanti al processo educativo dai meccanismi psichici che riproducono la personalità autoritaria.

Non per caso al centro della critica dell'educazione antiautoritaria è l'obbedienza, cioè il criterio guida della pedagogia nera - di una pedagogia nera, però, che non viene concepita in termini psicologistici ma è analizzata come risultato di interessi sociali di potere. Secondo la psicologia politica elaborata dallo psicologo sociale Peter Brückner, uno studioso vicino al movimento antiautoritario, la generazione di obbedienza si spiega con il collegamento mancato tra i bisogni pulsionali dell'uomo e le necessità della riproduzione sociale. Secondo Brückner la “natura” umana non è mai puramente biologica ma è sempre una natura mediata socialmente, perché il neonato si trova subito in un contesto sociale. La società assegna all'educazione il compito di mettere il bambino in grado di dominare la propria natura, senza però porsi il problema se non sia proprio la concreta organizzazione della formazione sociale a generare quei problemi comportamentali a cui essa poi cerca di rispondere coi mezzi dell'autorità, della richiesta di obbedienza, della domesticazione [Brückner 2000 (1966)].  Il modo in cui la società attuale integra gli adolescenti nel processo di socializzazione e riduce la natura umana a pura funzionalità  è un fattore fondamentale nell'insorgenza della problematica dell'autorità; ma poiché la società non vede, o non è disposta a vedere questo nesso, l'ideale pedagogico in essa propagato: l'educazione che rende se stessa superflua, resta una utopia.

Operando coi metodi della psicologia sociale Brückner articola l'obbedienza sui quattro livelli delle pulsioni, dell'apprendimento, della coscienza morale e dell'io, per procedere poi all'analisi delle conseguenze di un'educazione guidata dai principi dell'obbedienza. Tanto per i bambini quanto per le persone di riferimento primario la socializzazione e l'inculturazione si svolgono in maniera in larga misura inconsapevole; i genitori si attengono per così dire istintivamente alle tecniche educative dettate dalla tradizione le quali – coi mezzi della paura e della minaccia della privazione dell'amore - radicano nel bambino l'autorità, e stabilizzano quindi i rapporti sociali di potere [ivi, p. 90]. Il problema fondamentale di una “educazione alla maturità politica” nasce dal modo in cui le persone di riferimento primario del bambino reagiscono al suo conflitto basilare, il contrasto tra l'incondizionatezza delle sue pulsioni e l'incondizionatezza delle regole sociale di azione: e cioè creando sensi di colpa. Come una spada di Damocle grava sullo sviluppo del bambino la minaccia della privazione dell'amore, nel caso in cui non si adegui alle regole sociali [ivi, p. 91]. Questa human tecnique(2), che è inerente all'educazione contemporanea, molto probabilmente porterà nel socializzando ad una “economia intrapsichica dell'obbedienza” che in seguito determinerà un pensiero e un agire conformisti: la conseguenza di inesorabili aspettative di adattamento alle norme sociali è il modello psichico socializzato della regressione ad uno stile comportamentale che mira ad evitare la paura. Questa regressione determina a sua volta un atteggiamento politicamente e socialmente conformistico: “Se le emozioni che accompagnavano il conflitto dei doveri erano troppo angosciose, l'adolescente regredisce ad uno stile comportamentale che gli risparmia la paura .... Precoci e rigorose richieste di obbedienza oppure – il che è lo stesso – una precoce atmosfera di paura in cui siano immerse le richieste dei genitori, determinano in seguito conformismo e fuga dal rischio” [ivi, pp. 91 e 99].

A differenza dell'antipedagogia, che mira ad abolire l'educazione tout court, oggetto della critica  in Brückner come nel movimento per l'educazione antiautoritaria non è l'educazione come human tecnique sociale in generale, ma sono concrete forme storiche di educazione che si sono sviluppate nell'ambito di rapporti sociali autoritari e che nella loro concreta configurazione producono in bambini e adolescenti un comportamento conformistico. È necessario qui sottolineare, contro una confusione tra posizioni antiautoritarie e antipedagogiche che talvolta è ideologicamente voluta, che la risposta dei modelli di educazione antiautoritaria alla problematica autorità-obbedienza non  era affatto una educazione permissiva. L'educazione è per l'essere umano una necessità imprescindibile, ma è la  concreta configurazione dell'educazione che contribuisce a decidere della futura autonomia dell'adolescente. Anche l'educatore di orientamento antiautoritario si trova di fronte al problema di mediare tra le pulsioni e i bisogni del bambino e le richieste della realtà sociale; anche in un'educazione antiautoritaria deve trovare una soluzione pratica l'aporia di Kant: “Ma in che modo si potrà coltivare la libertà per mezzo della costrizione?”[Kant 1977 (1803), p. 711]. Obiettivo di un'educazione antiautoritaria non è il superamento del contrasto tra i bisogni articolati dal bambino e le richieste della realtà sociale, ma lo sviluppo di uno stile educativo che consapevolmente tenga conto di questo conflitto e che permetta al bambino di elaborare le ambivalenze che esso genera. Quello che invece il movimento per l'educazione antiautoritaria vuole eliminare, sono le forme repressive di educazione, poiché “gli stili educativi autoritari impongono un divieto collettivo di cercare, dubitare, interrogare al di fuori dei problemi evidenti e autorizzati: un divieto che getta nell'ansia chi solleva interrogativi, se ha introiettato quelle richieste; anzi, già il fatto di allontanarsi dai metodi sanzionati lo colma di inquietudine. Qui finisce la formazione [Bildung] e comincia l'obbedienza sociale” [Brückner 2000 (1966), p. 94 s.](3).

Un eminente rappresentante dell'educazione antiautoritaria, Reinhart Wollf,  ne ha così delineato programmaticamente gli obiettivi, in una conferenza tenuta al 4° Deutscher Jugendhilfetag [“convegno nazionale dell'assistenza sociale ai minori”] del 1970 a Norimberga: l'educazione antiautoritaria è un progetto che si colloca nel quadro della lotta anticapitalista per la liberazione e non può essere fraintesa come prassi educativa individualistica di gruppi sociali privilegiati. Si tratta al contrario di sviluppare un progetto educativo che ha per fine “la felicità individuale e collettiva, la capacità di affrontare la realtà e la capacità di resistere al potere e all'oppressione e intende raggiungerle attraverso l'appagamento e lo sviluppo fisico, psichico e intellettuale del bambino” [Wolff 1973, p. 19]. Emergono chiari qui due tratti fondamentali dei modelli di educazione antiautoritaria: da un lato il tentativo di coniugare l'individuale e il collettivo, ma dall'altro anche la volontà di progettare la trasformazione dell'uomo per mezzo dell'educazione partendo dalle condizioni reali della sua vita e della sua socializzazione in una società capitalistica. I modelli di socializzazione che l'educazione antiautoritaria vuole promuovere devono essere calibrati sulla specifica situazione sociale che si trova ad affrontare. Una negazione astratta dell'educazione tradizionale con i suoi valori dell'integrazione, concorrenza, rendimento sarebbe controproducente rispetto a quella capacità di affrontare la realtà che l'educazione antiautoritaria pone tra i suoi obiettivi. Le norme e le regole propagate dall'educazione tradizionale sono irrinunciabili perché il bambino sviluppi un atteggiamento realistico verso il proprio ambiente; ma egli le deve apprendere in modo da poterle sempre riesaminare criticamente [Dermitzel 1969, p. 182]. In termini psicoanalitici: se lo scopo è una soggettivazione riuscita, allora né l'Es né il Super-Io possono prendere il sopravvento; si deve invece rafforzare sistematicamente l'io come istanza della personalità che se di necessità contiene elementi dell'Es e del Super-Io, d'altra parte può, con la sua attività di riflessione, controllare criticamente le loro pretese e quindi potenziare l'autonomia del soggetto allargandone la percezione, la coscienza, il discernimento. Che la polemica della pedagogia orientata all'emancipazione si sia appuntata in un primo momento contro la “ipertrofia del Super-Io” [Koch 1995, p. 119] non può certo sorprendere in una società – come la Repubblica federale tedesca degli anni '40, '50 e '60 – nelle cui condizioni di socializzazione era ancora vivo e operante il carattere sociale autoritario del fascismo.

L'educazione antiautoritaria punta pertanto ad una generale ristrutturazione di una psicodinamica della personalità umana che è il prodotto di processi di socializzazione storici. Il principio pedagogico antitetico allo sviluppo nel bambino di una cieca disponibilità ad obbedire è l'autoregolazione. Il principio atavistico dell'autorità deve essere superato mettendo il bambino in condizione di percepire in misura crescente i propri bisogni e di accordarli realisticamente con le richieste dell'ambiente sociale. L'”autoregolazione” sta per un “programma pedagogico” in cui metodo e finalità dell'educazione antiautoritaria formano una unità inscindibile [Kinderschule Frankfurt 1973, p. 46s.]. Se grazie alle proprie esperienze e all'accompagnamento pedagogico il bambino è in grado di venire a capo del contrasto tra le proprie pulsioni e le richieste della società – di esercitare praticamente l'autoregolazione -, sarà anche capace, grazie a questa crescita di autonomia, di sviluppare una struttura della personalità centrata sull'io, che impedisce fin dall'inizio il consolidarsi di strutture superegoiche rigide. Anche nel contesto dei modelli pedagogici antiautoritari la libertà si costituisce quindi attraverso la necessità. Nel processo educativo anche il bambino autoregolato deve affrontare il compito di sviluppare un'istanza morale, una struttura superegoica; ma la psicodinamica perseguita dall'educazione antiautoritaria è diretta a sventare la pietrificazione di questa istanza, la sua trasformazione in un potere sociale internalizzato di comando. Il bambino che insegue solo i propri bisogni non corrisponde all'obiettivo dell'educazione antiautoritaria, perché è incapace di diventare autonomo ed è tanto poco libero quanto un bambino governato da strutture superegoiche rigide [ivi, p. 47]. Se il bambino narcisista è in balia delle sue pulsioni, il bambino eterodeterminato soggiace all'imperio di un superego dittatoriale.

Il riorientamento dell'educazione verso una sociopsicodinamica che renda possibile il potenziamento sistematico dell'autonomia implica una sensibilizzazione politico-pedagogica delle persone di riferimento del bambino, perché proprie esse sono le istanze decisive che trasmettono strutture caratteriali autoritarie. L'educazione antiautoritaria del bambino richiede la formazione di una coscienza che sia non solo in grado di riconoscere e accettare senza riserve i bisogni infantili, ma anche di riflettere sulle strutture della propria personalità e di modificarle. Non si può aprire una strada all'educazione antiautoritaria senza una sensibilizzazione politico-pedagogica del genitori, perché altrimenti le persone di riferimento trasmetterebbero inconsapevolmente alla giovane generazione i modelli di socializzazione che hanno appreso nella propria educazione. Poiché tutte le persone di riferimento dei bambini sono irretite nelle “costrizioni psichiche e sociali” portate avanti dall'educazione borghese, esse devono impegnarsi in un processo permanente di autosensibilizzazione per farsi chiarezza appunto su queste costrizioni, così da non trasmetterle ai bambini – devono diventare capaci di autoriflessione, di autocritica e di un impegno costante a lavorare sulla propria personalità [ivi, pp. 47 ss.].

Anche la coscientizzazione politica include ugualmente bambini ed adulti. Sviluppo, educazione e socializzazione dei bambini sono infatti un fatto eminentemente politico-sociale, perché i rapporti di produzione e riproduzione sociale e il potere politico si stabilizzano grazie alla costruzione di determinate strutture psichiche; l'educazione antiautoritaria non può quindi mai proporsi unicamente  la riorganizzazione dei processi psicodinamici, ma deve congiungere questo lavoro con la critica sociale e con una prassi indirizzata all'agire collettivo. Questo riconoscimento del nesso sociale e del carattere politico dell'educazione segna la linea di divisione dall'educazione non repressiva a Summerhill [Berliner Kinderläden 1970, p. 78; Kinderschule Frankfurt 1973, p. 54]. Una educazione non repressiva non è affatto realizzabile nella società esistente, i cui principi organizzativi sono antitetici a questo obiettivo. L'educazione antiautoritaria non vuol essere una provincia pedagogica ma una dimora di vita collettiva in cui si produce coscienza politica e i bambini hanno la possibilità di diventare personalità deste, che non temono il conflitto e sanno combattere [Sozialistischer Kinderladen Berlin-Kreuzberg 1970, p. 64]. L'emancipazione dalle costrizioni della società borghese-capitalistica ha come necessario presupposto la consapevolezza delle sue strutture politico-sociali. Di conseguenza nel movimento per l'educazione antiautoritaria il tentativo di “liberare dalle catene le energie intellettuali e psichiche dei nostri figli” procede di pari passo con  l'impresa di “educare consapevolmente contro gli interessi capitalistici di dominio e sfruttamento” [ivi, p. 63]

 

4. La permanenza della pedagogia nera – i compiti non assolti dell'educazione emancipatrice

La – più o meno sporadica – discussione scientifica dell'approccio educativo antiautoritario [Heiland 1971; Paffrath 1972; Claßen 1973; Ludwig 1979], se ne ha messo in evidenza contraddizioni e punti deboli, ha però rinunciato a risolverli e a sviluppare ulteriormente il principio dell'antiautorità nell'educazione. Alcuni settori della pedagogia degli anni '90 si sono addirittura ritenuti in obbligo di reclamare una ritrattazione sociale degli impulsi antiautoritari, sulla base di una ipotetica correlazione tra l'educazione antiautoritaria e l'aumento della violenza in generale e specialmente della violenza dei gruppi giovanili di estrema destra [su questo dibattito v. Bernhard 1994]. D'altra parte pedagogisti che sono da ascrivere alla pedagogia critica in senso lato tendevano a tabuizzare o negare tacitamente la crisi di legittimazione del principio antiautoritario, che ha le sue cause stanno in una trasformazione sociale della problematica educativa e che quindi dovrebbe essere affrontata in termini nuovi. Che una scienza pedagogica orientata all'emancipazione non voglia o non possa riconoscere la dialettica dell'educazione in quanto costrizione umana, e di conseguenza non sia più in grado di affrontare in condizioni sociali mutate il problema sociale dell'educazione in tutta la sua contraddittorietà, sembra doversi spiegare sia con considerazioni interne alla disciplina sulla perdita di significato del concetto di educazione [cfr Krüger 1994], sia con riserve circa la sua applicabilità alla discussione dei problemi pedagogici che hanno la loro radice nel processi di socializzazione politica dei pedagogisti critici (carattere conservatore del concetto di educazione, equiparazione di educazione e pedagogia nera). Così si è rinunciato ad affrontare sistematicamente le difficoltà che i modelli di educazione antiautoritaria avevano incontrato nel tentativo di implementarli in una prassi sociale contraddittoria, e si è invece accettato il loro strisciante depotenziamento mediante incorporazione. Hanno invece guadagnato terreno impostazioni che hanno potuto utilizzare il punto dolente di una scienza critica orientata all'emancipazione per riabilitare l'autorità e vari elementi della pedagogia nera [v. Ahrbeck 2004; Bueb 2007]. Ma l'eliminazione del concetto di educazione impedisce l'ulteriore approfondimento del principio dell'antiautorità nella prassi educativa.

Se consideriamo l'educazione antiautoritaria un fenomeno di interesse ormai puramente storico, risulterà difficile occuparsi seriamente del significato duraturo del principio dell'antiautorità. Il movimento per l'educazione antiautoritaria infatti non solo non è riuscito, neppure minimalmente, a dare realtà al suo obiettivo di rendere possibile agli esseri umani una soggettivazione che li preservi dalla funzionalizzazione nel quadro delle condizioni sociali di lavoro e di vita; anzi, contro le proprie intenzioni i motivi antiautoritari, passati sotto il controllo dell'industria culturale, sono stati funzionalizzati alla modernizzazione della società nella prospettiva dell'economia di mercato. Una “educazione antiautoritaria” deformata dall'industria culturale nelle sue intenzioni, contenuti e metodi ha collaborato all'erosione del carattere sociale autoritario e con ciò all'emergere di un tipo di socializzazione che si è rivelato assai più adatto per la società del benessere e dei consumi dell'uomo statico, rigido, ascetico, ligio all'autorità. Balzano qui agli occhi sorprendenti analogie con la funzione della Reformpädagogik [cfr. Plake 1991, pp. 157 ss.]. Col suo impegno per una trasformazione dei processi psicodinamici, per lo sblocco delle energie psichiche e intellettuali, per l'emancipazione della sessualità l'educazione antiautoritaria è stata un fattore essenziale nella costruzione di un carattere sociale nuovo, funzionalizzabile, nel rendere utilizzabili per il consumo delle facoltà soggettive umane – un pericolo, di cui i rappresentanti di questo modello educativo già all'epoca erano senz'altro consapevoli [Berliner Kinderläden 1970, p. 17].

In vista di una ridefinizione del principio dell'antiautorità nella società e nell'educazione la scienza pedagogica non può accontentarsi di determinare la funzione macrosociale che determinati modelli storici di educazione antiautoritaria hanno avuto nel processo di modernizzazione della società capitalistica, né può limitarsi a valutare nel dettaglio innegabili difetti di concezione, valutazioni errate, smarrimenti o unilateralità delle posizioni pedagogiche antiautoritarie – punti deboli, che in molte pubblicazioni attuali vengono utilizzati demagogicamente per screditare politicamente tentativi di trasformare in senso emancipatore la società. I tentativi di un'educazione antiautoritaria erano parte di un più ampio movimento politico di protesta e come ogni movimento che vuole sviluppare alternative sociali, erano costretti  a formulare antitesi; nate dall'opposizione contro strutture sclerotizzate, queste antitesi non poteva non non dar vita ad effetti che in seguito si sarebbero rivelati bisognosi di correzione. Qui rientrano forme irriflessive di “liberazione” sessuale in una società che in misura crescente si concentrava sulla commercializzazione della sessualità, ma anche la confusione tra comportamento insolente e le obiezioni razionalmente argomentate di un soggetto che dà prova della propria autonomia. Al di là di ciò il compito fondamentale della scienza educativa consiste nel motivare e riformulare il principio dell'antiautorità nell'educazione tenendo conto delle mutate condizioni di socializzazione. Il movimento per l'educazione antiautoritaria non poteva risolvere il problema sociale dell'”autorità nascosta” [Adorno 1982, p. 131], da un lato perché il suo concetto di autorità non si indirizzava con la necessaria coerenza ai sottili fenomeni di autorità che richiedono subliminalmente acquiescenza e obbedienza; dall'altro perché i gruppi sociali dominanti hanno saputo utilizzare gli impulsi provenienti da questo movimento per una generale deregolarizzazione delle relazioni interumane, riorientandole verso le necessità della concorrenza e della competizione. Tutti gli effetti di cui si fa carico – in maniera piuttosto superficiale – all'educazione antiautoritaria: perdita di valori, insolenza, irrispettosità, mancanza di disciplina, inclinazione alla violenza – questi effetti di socializzazione sono in primo luogo il risultato dell'organizzazione economica di una società che per assicurare la propria continuità deve sbloccare energie e strutture psichiche funzionalizzandole a comportamenti di concorrenza e consumistici e in cambio è disposta ad accettare la concomitante e inevitabile perdita di riconoscimento, empatia  e solidarietà. Indizi di questa situazione sono i problemi di disciplina nell'educazione e nell'insegnamento. Queste tendenze generano una “debolezza dell'io” [ivi, p. 143] – il cui superamento era appunto l'obiettivo dell'educazione antiautoritaria - che da un lato è socialmente voluta, e dall'altro viene poi continuamente problematizzata per la sua intrinseca tensione decivilizzatrice. Da una regolazione umana del fondamentale conflitto tra i bisogni istintuali dell'uomo e le richieste della società  la società attuale, con i suoi rapporti centrifughi, è ancora più lontana che non  la società della guerra fredda – senza con ciò voler idealizzare a posteriori quest'ultima. Nel capitalismo neoliberale il clima di gelo sociale si è allargato e intensificato, si insinua nello strutture psichiche dell'essere umano e impedisce la formazione dell'io come istanza di riflessione e centro di resistenza della personalità – oppure porta alla sua regressione.

Una pedagogia che resti fedele al principio antiautoritario deve porre al centro delle proprie riflessioni i retroscena sociali del gelo che pervade le relazioni interumane. La sua attenzione deve dirigersi soprattutto ad esplorare i nuovi campi di un'autorità nascosta, per tematizzarla e problematizzarla in modo che bambini e adolescenti ne diventino consapevoli e per questa via possano in misura crescente controllare in autonomia i propri potenziali. Questa autorità nascosta, che possiamo rintracciare anche oggi, come prima, nelle strutture delle relazioni interpersonali, nel frattempo è diventata ubiquitaria, dato che l'”invasione disciplinare del potere” [Hardt/Negri 2002, p. 39] è stata interiorizzata dagli uomini, grazie ai più vari meccanismi di socializzazione. Autorità nascosta si ritrova nei comandi della merce estetizzata così come nelle soap opera dell'industria culturale, coi loro effetti di immobilizzazione della coscienza; la si può identificare nei setting della psicodiagnostica e dell'industria dei test come in standard formativi proclamati passando sulle teste dei bambini. La possiamo rintracciare tanto nelle strutture di comando dei videogiochi e dei computer game quanto nel design dei messaggi politici. Sensibilizzare non soltanto i giovani per l'azione subliminale di queste tecniche umane autoritarie che sono entrate a far parte della loro personalità, è quindi, nell'attuale società, un compito essenziale dell'attività pedagogica.

La premessa per tener saldo il principio antiautoritario è senza dubbio il riconoscimento che nell'educazione è necessaria una mediazione tra costrizione e libertà. Il permissivismo nei rapporti coi bambini nega questa necessità e tutti conosciamo le sue manifestazioni. Ma il bambino può conquistare l'autonomia solo se può crescere contro la resistenza che l'educatore gli mette a disposizione col fatto di strutturare preliminarmente l'ambiente in cui vive, di trasmettergli regole sociali, di rendergli accessibili valori e così via. La dialettica di costrizione e libertà, di integrazione e liberazione, questa dialettica che percorre l'educazione è qualcosa di cui più che mai dobbiamo rendere consapevoli coloro che pensano di poter promuovere l'autonomia ignorando il principio della socialità. La socialità è il necessario presupposto dell'autonomia e affinché il loro legame abbia un significato di emancipazione è necessario il riconoscimento reciproco nel rapporto intergenerazionale: il riconoscimento del bambino ma anche il riconoscimento della persona che lo educa e gli mette a disposizione esperienze, conoscenze e strumenti per conquistare l'autonomia.

L'idea corrente nella scienza dell'educazione di quel che è la pedagogia nera ha ormai da tempo bisogno di essere rivista, non per allargare antipedagogicamente il suo concetto ad ogni momento educativo [v Flitner 2004], ma per dirigere l'attenzione su quei processi nascosti, sottili, sotterranei che, al di là di una repressione fisica e psichica palese, coartano la natura infantile a sottomettersi alle direttive sociali. Se non si identifica e supera la tendenza centrale della pedagogia nera: il “controllo totale del materiale psichico” (Brückner) - che non viene percepito come tale appunto perché deforma in maniera non visibile la soggettività infantile -, non si potrà vincere la battaglia contro di essa. Al contrario: la pedagogia nera ha allora solo conosciuto un'altra metamorfosi, ha cambiato i suoi strumenti, mezzi, metodi, non la sua tendenza fondamentale; è diventata per così dire più totalitaria. E ciò giustifica la permanenza del principio antiautoritario nell'educazione.

 


* Traduzione di Bruno Argenton

1 - Ulrich Klemm distingue un'impostazione educativa antiautoritaria di impronta socialista e marxista e altre d'impronta liberale, che si sono formate soprattutto partendo da A.S. Neill (Klemm 2003, pp. 54 ss.). Indicazioni bibliografiche dettagliate si possono trovare in Claßen 1971; Zentralrat der sozialistischen Kinderläden Westberlin 1969; Klemm 2003.

2 – Questo fondamentale concetto, “psicologia politica”, rappresenta un'importante categoria di analisi sociale che Peter Brückner ha sviluppato per rilevare criticamente i meccanismi sociali di adattamento e di integrazione nel processo di socializzazione [Brückner 1978 (1968), pp. 173 ss.].

3 – Gottschalch distingue a questo proposito tra autorità “che blocca” e autorità “che aiuta”. La prima si ha quando “l'autorità viene praticata e difesa come potere discrezionale su esseri umani”; autorità “che aiuta” intende invece un equilibrio tra costrizione e libertà nel processo educativo, nella prospettiva di liberare il bambino dall'educatore [1968, p. 547].

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Scienze Filosofiche e Pedagogiche

N° 4/2008