TOPOLOGIK.net   ISSN: 1828-5929 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANTONIO D'ELIA

 

Dottore di ricerca in Scienze letterarie, Retorica e Tecniche dell'Interpretazione

Cultore di Letteratura italiana

 

Presentazione

 

   

Michele Borrelli

"La voce dei fiori. Quaranta liriche per la ricerca di senso"

(Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2008)

La scrittura poetica di Michele Borrelli, offerta per la prima volta al pubblico, viene qualificandosi entro un giro tonale che trae origine e significazione (l´enunciato specifico di ciò che il segno lirico partorisce) da quella che, da un lato, realizza "apparentemente" la conclusione materica dell´esistenza (la morte, variamente appellata), mentre, dall´altro, proprio la finitezza del "percettibile" trasmette l´immissione dell´Io in un tempo e in uno spazio che addensano nella veglia della ragione il suono e l´eco di un canto ipertroficamente liturgico. Una sacralità cioè del poetare che vive e si muove tra la recettività gnoseologica tutta tesa a dare testimonianza della severità delle tappe che raggiunge o che non vorrebbe raggiungere e, assieme, sostante nell´azione di amalgamare nell´oltre, indistinto e pur presente, per paradossale che possa sembrare, il logos in una esplosione vibrante e sagacemente intuitiva, mentre esso, al contempo, viene spronato a "dire" ciò che il soggetto avverte nella "spogliazione serale" dell´anima operata (resa attiva) dal poeta e da ciò che quest´ultimo le ricorda. E il verso contempla le stanchezze del peso dei pensieri e l´orrore di un male il cui enunciato si mescola con quello di bene: da qui la rêverie della reminiscenza e la sua evocazione creano osmosi repentina della parola,  che si muove tra l´attuale e l´attualità (wirklich-wirklichkeit). E nell´intercapedine temporale, generata dalle esperienze delle fasi diacroniche della storia dell´individuo e degli individui, il suicidio di Dio va a sostituire l´omicidio operato dall´ente, e i "valori" pur stravolti sembrano rimanere disorientati dalla perplessità di porre obiezioni al vissuto. La poesia così si ammala del già detto (dello scontato) e risorge di continuo nella corsa affannata ma istintiva per raggiungere il comprehendere

Le valorialità e le "categorizzazioni" proprie di una impostazione speculativa che si identificherebbe in principi ed asserti "evidenti" nella "poeticizzazione" del canto sembrerebbero, a loro volta, rovesciare le tesi sulle quali andrebbero a basare le fondamenta della propria apparente pericope, oltrepassando così la teorizzazione dell´idea e del suo contrario in una codificazione narrativizzante della lirica, facendo sì che la "fantasia" (lo spettro della memoria) incateni l´egoità di colui che canta alle considerazioni delle "concretezze" provenienti dalla realtà circostante o da quella suggerita dal pensiero sulla vita.

Il passato e l´avvenire, rapportati allo scandalo necessitante di "parlare" sull´essere (la necessità è predicativo dell´ente come bisogno dell´anima ed è, poi, il consequenziale prodotto delle imposizioni dettate dal contesto diegetico) partorito dallo stupore (che non è incoscienza) delle sue stesse movenze,  fanno germinare la domanda di senso sull´applicazione esistentiva della scelta: il testamento si fa verso ed il verso diventa quantificatore di una religio che non annette a sé alcuna soluzione moralistica, la quale invece è tutta racchiusa prima del canto in quel «Perché» ossessionante della lirica d´apertura, Eutanasia.

Il poeta è, dunque, assieme respondens e opponens: si domanda e domanda, dà risposta e riceve risposta dalla "gravezza" di un vissuto condensato nelle pieghe di una carne ormai lacera; così «Il mio corpo/ è qui inerme/ indurito/ da quiete/ avvolto/ rapito dal nulla», e la lingua assume la criticità di veicolare la problematica sull´essere, investendo (costruendo  la responsabilità del farsi voce) la persona nella sua totalità e che necessariamente deve cancellare ogni aspetto retorico dalla sua trama "stilistico/grammaticale" per trasformare gli oggetti sensibili non in vuoti onanismi cerebrali ma traduttori di un mistero che solo il bisogno provocato dal dolore può rigenerare/riprodurre nella datità poetica: «anche il cuore s´è fermato/ riposa sereno/ ha finito di supplicare» (ibidem).

In questa raccolta versificatoria, La voce dei fiori. Quaranta liriche per la ricerca di senso, Michele Borrelli sente l´incessante richiesta di non cedere al con-senso mondano e alla forse troppo scontata "scandalizzazione" del proferire un contrario principio a quello diffuso nella società del qui (probabilmente anche del "prima"), per il sensazionalistico atteggiamento di realizzare quindi un opposto che soddisfi il manierismo intellettualistico del momento.

La parola centrale del libro è senso, il quale vuole aderire al sentimento (l´attrazione verso l´affetto che prova l´Io per se stesso e la conquista defettibile che lancia continuamente in sé) del suo esserci, esponendosi nei labirintici processi speculativi fino a neutralizzarli e, parimenti, cogliendo nella tensione del canto la "soggettivizzazione" di un verso, appunto, che si rende testimone non solo e non tanto dei pensieri, oltre l´atto speculativo, quanto capace di catalogare nell´archiviazione riflessiva, mediante la "cetra", le epoche delle sue trasformazioni.   

Le figure intime del vissuto del cantore  spazializzano in un "foris", in cui le storie della narratio del "domi", ora familiare ora comunitario, devono (il dovere è conditio sine qua non del poetico) comunque essere esposte, l´oggetto della ricerca (la verità e il suo contrario); e i nomi e le cose laconicamente tradotte istruiscono le liriche ad assurgere a strumento per disvelare l´attributo del loro stato. Il «davvero», posto nell´ultima parte del primo componimento, raccorda l´intera sequenza lirica nel gesto esemplificativo di dare conto del morire e della morte, ma più ancora rimanda ad un sentimento della colpa, che non indica chi l´ha generata o perpetuata, ma che individua nel percorso della storia che la regge l´indubitabilità apodittica dell´approfondimento dell´evidenza: «stacca tu quest´inutile spina» (ibidem). La richiesta di fornire soluzioni che diano una tranquillità a chi le chiede non vengono in realtà esposte, se non come risvolto di una urgenza più che logica (nell´accezione comune del termine) pre-riflessiva (protologica: il poeta tende a cucire nella pietà che riversa su di sé il nulla al tutto, indagando sul motivo dell´«infierire»), e l´atto conclusivo, disperante della supplica («vi supplico», «ti supplico», «supplicare») fa intravedere  il dialettico confronto tra un Io meta-strutturato e un Voi, i quali traducono, alternandosi, sia il desiderio di finitezza che la volontà di ritornare nella finitezza stessa per apparentarsi nell´affetto con e dell´origine.     

Il linguaggio, sagace dimora dell´essere, è di stampo filosofico, ma indulge, ripulito dalla tentazione di esporsi in una "trattatistica liricizzante", alla parenetica dinamicità del "racconto in versi". Se in alcuni componimenti il resoconto storicizzante di un tu o di un noi legati dall´io lirico si qualifica come tema centrale del canto, in altre il pensiero sull´infinito, sull´essere, sul tempo, sul nulla, sul nome dell´uomo e di Dio, sulle tragedie intime e collettive, sulla scienza/tecnica e sulla poesia stessa  riflettono le vicende di un incontro o di un abbandono, di un sentire l´abbraccio pervasivo del Tutto o di avvertire la potenza del Nulla, recettivi stimoli alla ricerca che il poeta compie per darsi una qualifica che lo identifichi nell´ Essere.  Ecco che le domande del cantore ai suoi affetti («Dimmi papà, dimmi mamma/ perché non siete tornati?», Orfano) sono ricostruzione dettagliate («il mio ritorno», Emigrante) del rendiconto della memoria, che si va ad unire al desiderio di un avvenire che oltrepassi il trascendente e si insinui in perenne circolarità sull´atto di responsabilità nei confronti dell´altro, che diventa il Medesimo quando la malinconia riempie il vuoto dell´«ultima sembianza/ d´essere umano» (Malinconia), mentre le dissolvenze delle percezioni riordinano i loro processi e spingono a comprendere nell´«adesso» (Partenza) poetico «cosa avevi in mente e/ dell´angoscia infinita/ in cui mi hai lasciato» (ibidem).

A ricoverare la solitudine è un "tu" reso, diremmo, fisico, quasi tangibile dal «presentimento di morte» (Silenzio). Esso si concretizza quale idea (essenza/sostanza) che porga le coordinate da cui il nulla germina; e dal «Tutto tace» (ibidem) la voce del nulla/silenzio erompe come vagito preannunciante il movimento tra cogito e cogitatum.

Praxis e pathos sembrano rincorrersi in una geografia inquietante dell´anima, dalla quale al «Vento d´autunno» (Ridammi il cuore) il «deserto interiore» (ibidem) fa da sfondo entro le incalzanti interrogazioni inerenti il processo sulla storia del noi/uomo: l´osservazione delle movenze del memento unitamente all´oltraggio subìto dalla forza che ha materiato l´uomo, dall´essere stesso dell´Essere spinge il poeta a gridare contro il peso che "occorre" portare e sopportare: quello che ha schiacciato l´altro non facendolo diventare prossimo, privandolo di conoscersi, o meglio sapere dell´altro il termine mediante il quale osservare la luce o la tenebra. Il recinto a tratti aperto  e a tratti chiuso nel quale lo Straniero cammina «nel vuoto» (Straniero) o dal quale ascoltare «le voci/ strazianti/ dei fiori/ degli steli/ che cercano/le corolle/ e queste i loro petali/ smarriti/ similmente/ alle anime/ degli umani» (La voce dei fiori), riproduce il luogo più intimo dell´esistenza e i corpi e le loro anime sono visti dal disgiunti «inesorabilmente» (ibidem). Il poeta, tuttavia, non cede alle lusinghe dei pensieri né a quelle provenienti dal nulla: continua incessante la sua ricerca.

Il tessuto poetico di questa raccolta si distende nei travagliati e fascinosi meandri di molta scrittura in versi, che, sebbene in modi diversi, a partire da Hölderlin e Leopardi, attraverso il Nietzsche lirico, e non solo, trova pur nelle rispettive differenze, soprattutto nel pensiero/poesia del Novecento, un "suo riproporsi" con forza e singolarità: il Nostro è così sedotto dalla voce di una vicenda (la propria) che lo espone alla comparatio con «il tempo» (A Martin Heidegger Lichtung) di molti "pastori dell´essere", i cui armenti, attraversando svariati pascoli, hanno conosciuto il dramma della notte oscura e l´insidia di una o più verità, che si perpetuano ora «per quel viaggio/ del non ritorno/ che d´infinito/ si nutre» (A Giorgio Penzo) ora in quel «mio/addio» (La morte) pronunciato dal poeta nel «Tempo/ a cui niente sfugge» (Il tempo). Un tempo che invera o dovrebbe tradurre «il senso d´ogni corsa» (L´ultima sfida): un sentimento alimentato nel « grido straziante/ di Dio e il pianto/ delle anime/ dei bambini / che cercano/disperatamente/ le loro mamme» (Stella di Davide).        

Al centro del canto di Michele Borrelli è l´uomo: quello stesso che sembra dire di non desiderare di essere quello che è, partorendo la sua essenza come il risultato di un «Vorrei essere» e  di un «semplicemente/ essere» (Essere).

Il canto contenuto in queste  pagine, secondo la nostra analisi, ha molti punti in  comune con quella poesia detta ontologica o meglio quella che dalla riflessione ontologica parte per tentare l´ascesa del metafisico, sempre, però, con chiaro riferimento alla "natura/struttura" del termine e del suo etimo: ossia di un processo che tende oltre il materiale e che, tuttavia, da esso prende le mosse per regolare il cammino al di là «dell´acqua limpida dei ruscelli» (La voce dell´essere) nel «senso delle cose» (ibidem).

L´afflato naturalistico e il termine di matrice "eidetica" caratterizzano la parte finale del libro, conferendo alla parola la sacertà del gesto liturgico, di una liturgia volta ad oltrepassare l´ambiguità semantica delle locuzioni enunciative  per introdurre il senso del valore conoscitivo che solo la poesia (per seguire un comandamento antico ma sempre attuale), dopo il travaglio prodotto dallo scontro tra ragione e asserzione fenomenologica, può offrire accordando ancora la possibilità di pensare mediante il canto e solo tramite esso l´intonazione "adatta" al nome proprio.


 

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2008, n°3