TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      Numero 4/2008


 

Marcello Zanatta

 

La dottrina aristotelica del numero

e la critica delle teorie accademiche[1]

 

Un'analisi della filosofia platonica del numero, delle critiche che vi muove Aristotele e della dottrina che questi elabora su tale argomento non può non essere avvertita, assieme alla difficoltà del tema, del margine d’insuperabile arbitrarietà che costitutivamente vi si connette. In effetti, gran parte della dottrina platonica del numero si concentra nelle cosiddette «dottrine non scritte (agrapha dogmata)», e, d'altro canto, proprio sulla critica di questa teoria platonica si áncora la concezione dello Stagirita intorno al numero; anzi, più propriamente, essa si áncora sulla critica delle teorie accademiche, perché a partire dalla teoria di Platone si svilupparono nell'Accademia, in funzione di revisione critica di quest'ultima, le dottrine di Speusippo e di Senocrate. Ebbene, un primo livello del margine di arbitrarietà di cui si diceva concerne il fatto che delle platoniche dottrine non scritte le testimonianze più cospicue sono proprio quelle di Aristotele, e in merito a esse le posizioni degli studiosi sono state diversissime. A ben vedere, è difficile trovare un tema nell'ambito della storia della filosofia che presenti tanta e tale incertezza. Aristotele testimonia che Platone, accanto a una dottrina pubblica, espressa nei Dialoghi, nell'ultimo periodo della sua speculazione, sostanzialmente dopo il terzo e ultimo viaggio in Sicilia, professava anche una dottrina non scritta, perché riservata ai membri dell'Accademia, quindi in un certo senso e in qualche modo privata. Essa consisterebbe in una sorta di matematizzazione delle Idee, dopo che nel Parmenide lo stesso Platone aveva presentato una serie di difficoltà in ordine alla loro esistenza, difficoltà che esprimevano quelle sollevate dai membri dell'Accademia nel quadro di quel grande dibattito che in seno alla scuola si sviluppò intorno ai temi basilari del platonismo, la dottrina delle Idee in primis. Ebbene, testimonia Aristotele, nelle dottrine non scritte Platone avrebbe riconosciuto una struttura ontologica delle Idee basata su principi di ordine matematico, sicché l'impianto fondante stesso delle Idee sarebbe di questo tipo. Detti principi sono l'Uno, avente funzione di principio formale, e la Diade indefinita di Grande e Piccolo, avente funzione di principio materiale.

Già i Pitagorici - quei Pitagorici con i quali Platone venne in contatto durante i suoi viaggi in Sicilia - sostenevano che i numeri sono il risultato dell'azione di un limite o peras su una quantità indeterminata o apeiron. Detta limitazione è espressa dal fatto che ogni numero, il quale, in quanto tale, è una quantità, è una quantità finita, ed è cosiffatto perché è un aggregato finito, ossia limitato, di unità, ciascuna delle quali è un volume minimo, ossia una «unità dotata di posizione (monàs échousa thésin)». Ond'è che i numeri hanno esistenza reale, sono cioè enti fisici, e in quanto tali costituiscono il fondamento, giacché sono i componenti, anzi i componenti ultimi delle cose. Esse, infatti, nella loro costituzione ontologica sono, per l'appunto, numeri. E' deł tutto evidente che con questa dottrina del numero come fondamento delle cose i Pitagorici formulavano una dottrina atta a fornire un supporto razionale, ossia una spiegazione del fatto che l'universo appare ordinato, sia nel suo insieme che in ogni sua parte e in ogni fenomeno. Il numero, pensato come costitutivo delle cose, è la chiave per comprendere quest'ordine: le stelle si muovono secondo un ordine matematicamente esprimibile, le stagioni si susseguono secondo periodi costanti calcolabili, i cicli della vita hanno un ordine matematico, le armonie musicali sono date da rapporti tra suoni, e un rapporto è un numero.  Va ancora fatto presente che per i Pitagorici i numeri, in quanto aggregati di unità, erano rappresentati come una serie binaria di esse che prosegue all'infinito, se trattasi di numeri pari, mentre nei numeri dispari un'unità chiude la seria binaria di per sé aperta all'infinito. Anche in questo senso e per quest’aspetto, dunque, principi del numero sono il limite e l'illimitato.

Ebbene, Platone nelle dottrine non scritte riprende la concezione pitagorica e la applica alle Idee per definirne l'ossatura ontologica. Ed è un'ossatura che mette in mostra una struttura matematizzante delle Idee. La Diade indefinita di Grande e Piccolo, si diceva, è principio materiale, ed è principio che esprime l'infinito in quanto è fattore duplicatore, o, comunque, matrice atta ad aumentare in ragione aggiuntiva di due, l'Uno che, in funzione di principio formale, s'impone su di essa. Dall'azione dell'Uno e della Diade si originano pertanto quelli che Platone chiama numeri ideali o Idee-numeri. L'unità duplicata dalla Diade dà luogo alla dualità, questa, a sua volta, alla quaternità, che, duplicata, dà luogo alla ottità. Per altro verso, la dualità, aggiunta all'unità dà luogo alla ternità la quale duplicata dà luogo alla seità, mentre la ternità aumenta di due dà luogo alla quinquità, alla settità, quindi alla nonità. Infine, dalla duplicazione della quinquità ha luogo la decade. Ecco, dunque, che dall'azione duplicatrice, per un verso, e per altro verso accrescitiva in ragione di due propria della Diade sull'Uno si originano i primi dieci numeri. Si tratta, come non è difficile scorgere, di numeri ideali in quanto esprimono l'essenza dei corrispondenti numeri aritmetici: la ternità esprime l'essenza di tutti i tre, la quaternità l'essenza di tutti i quattro, e così via. Ecco perché sono limitati alla decade: in effetti, con i primi dieci numeri, meglio: con le essenze dei primi dieci numeri, si forma l'intera serie numerica. Dai numeri ideali derivano poi, in successione, le Idee, le quali, essendo prodotte dai numeri, hanno una struttura numerica; indi i numeri matematici, che, a differenza di quelli ideali, sono infiniti.

Ora, una prima ragione del margine d’arbitrarietà di cui si diceva è data dal fatto che la testimonianza aristotelica in ordine a tale dottrina non scritta di Platone sui principi è stata oggetto di ampie discussioni tra gli studiosi, con esiti tra loro contrastanti. Di fatto, si va dalla tesi estremistica di Cherniss, per la quale Aristotele avrebbe inventato questa dottrina platonica per meglio e più determinatamente affondare la sua critica alla teoria delle Idee, alla tesi, altrettanto estremistica, della cosiddetta scuola di Tubinga e Milano, secondo la quale le dottrine non scritte non soltanto sono un’autentica elaborazione teorica di Platone, ma costituiscono l'ossatura filosofica portante di questo pensatore, da lui formulata già nella prima fase del suo filosofare e portata avanti accanto a quella pubblica dei Dialoghi, della quale sarebbe, per l'appunto, l'intelaiatura metafisica: incomprensibile per i più, e per questo esposta soltanto all'interno della scuola, e non affidata allo scritto.

Oggigiorno, l'opinione prevalente degli studiosi è che le dottrine non scritte sono sì da ascrivere a Platone, ma esse sono state elaborate soltanto nell'ultima fase del suo pensiero. Quanto al valore della testimonianza aristotelica, si riconosce per lo più che essa tende a ricomporre entro gli schemi concettuali del proprio pensiero e delle proprie categorie filosofiche le dottrine platoniche, a partire da quella delle Idee, ma che, sottoposta a vaglio critico e letta con lenti che tendano a correggere le deformazioni dovute alla suddetta modalità dello Stagirita di presentare Platone, essa è sostanzialmente attendibile. Va così assunta come genuina anche la notizia aristotelica in ordine alla riformulazione/revisione della dottrina platonica dei principi per opera di Senocrate, il quale identificò totalmente le Idee con i numeri ideali, e di Speusippo, che invece eliminò sia le Idee che i numeri ideali e dai principi fece discendere direttamente i numeri matematici.

Un altro nodo problematico e, di conseguenza, un altro aspetto di quel margine d’arbitrarietà di cui si diceva, riguardano l'attribuzione delle posizioni chiamate in causa all'uno o all'altro di questi filosofi.

Poiché in questa sede non è tanto l'aspetto storiografico dei personaggi dell'Accademia ciò che sta cuore, sibbene l'aspetto storiografico delle tesi che si agitavano nell'Accademia in merito ai numeri e alle grandezze geometriche, sarà sufficiente individuare e ricostruire tali dottrine, senza rivolgere particolare attenzione all'identificazione dei loro sostenitori.

Quanto, infine, al taglio non storiografico della testimonianza aristotelica, al fatto, cioè che essa possa presentarci non già «ciò che hanno veramente detto» gli Accademici intorno ai numeri, ma l’interpretazione dello Stagirita delle loro dottrine, operata alla luce delle proprie categorie concettuali, è anche possibile dire che ciò, se per un verso comporta un limite che richiede allo storico di porre in atto tutti gli accorgimenti della critica per arrivare a enucleare il genuino assunto dottrinale delle posizioni in oggetto, sotto un differente profilo rappresenta però una sorta di inveramento del dato stesso. Nel senso che il modo di Aristotele di presentare quelle dottrine può ben aiutare l'interprete a cogliere, al di là di ciò che è stato veramente detto, la verità del detto, e sotto questo profilo essa rappresenta un contributo prezioso e insostituibile.

Le critiche che lo Stagirita muove alle dottrine platoniche dei numeri ideali si sviluppano in una pluralità di argomentazioni sottili e capillari che sviscerano e mettono allo scoperto molteplici aspetti di queste teorie stesse, ma tutte si articolano intorno a un motivo di fondo e, sotto un certo aspetto, non sono che la riproposizione di questo motivo da diverse angolature, ovvero la segnalazione delle assurdità denunziate in questo motivo di fondo, e cioè il fatto che i numeri, platonicamente intesi, sono sostanze, mentre in realtà non si tratta di sostanze, bensì di aspetti quantitativi degli enti fisici considerati astrattamente, ossia isolatamente da altri aspetti. Su questo punto occorre riflettere. Carattere proprio della sostanza è di essere per sé sussistente, di essere, cioè, un ens in sé, ovvero, come dice Aristotele, di avere un'esistenza separata. Ora, i numeri ideali, in quanto Idee, hanno un'esistenza separata e come tali sono sostanze. Ma allora ecco che, in prima istanza, si avrà l'assurdo di sostanze nelle sostanze. Infatti, nella serie numerica ogni numero posteriore contiene tutti i numeri anteriori: per esempio, il cinque contiene il due, il tre e il quattro. Ma a sua volta il quattro contiene il tre e il due, e a sua volta il tre contiene il due. Ora, se i numeri sono sostanze, si avrà che una sostanza, ossia la quinquità, contiene un'altra sostanza, la quaternità; contiene inoltre altre due sostanze, e cioè la ternità contenuta nelle quinquità e la ternità contenuta nella quaternità, a sua volta contenuta nella quinquità; contiene infine altre tre sostanze, vale a dire la dualità o il due ideale contenuto nel cinque ideale e i due ideali contenuti rispettivamente nel quattro e nel tre ideali, a loro volta contenuti entrambi nel cinque ideale.

Non soltanto, ma, oltre a presentare l'assurdo di sostanze contenute in sostanze, contraddittoriamente rispetto al fatto che ogni sostanza è un sé e dunque ha un'esistenza separata, si verifica altresì una moltiplicazione a dismisura delle sostanze. E poiché ciascuna di esse, essendo un numero ideale, ossia un'Idea, ha per ciò stesso funzione di principio, una tale moltiplicazione delle sostanze finisce per essere una moltiplicazione a dismisura dei principi, venendo così a crearsi una situazione che smentisce la funzione esplicativa stessa del principio, giacché spiegare significa ricondurre molti casi a un numero limitato di regole, aventi per l'appunto funzione di principi; ma se le regole, ossia i principi, sono aumentati a dismisura, essi non spiegano nulla, ma semplicemente richiedono a loro volta di essere spiegati, ossia di essere ricondotti a poche regole principiali. Insomma, la moltiplicazione delle sostanze in cui consistono i numeri ideali smentisce, in actu exercito, ciò che la dottrina dei principi afferma in actu signato.

Infine, l'aritmetica, in quanto scienza dei numeri, quali numeri avrà per oggetto? La risposta immediata è: dei numeri matematici, ovviamente. Ma se i numeri ideali costituiscono l'essenza dei numeri matematici, com'è possibile una scienza, la matematica, per l'appunto, che non si occupi delle proprietà essenziali o per sé dei suoi oggetti?

La dottrina aristotelica del numero si staglia in rapporto a queste critiche e, in particolare, in rapporto all'acquisita consapevolezza del suo carattere non sostanziale, bensì di predicato. Il numero è un predicato, e precisamente quel predicato che dice (che predica) il plethos, ossia la quantità successiva di unità di cui è costituita una cosa. Ciascuno di questi termini esige di essere spiegato.

In Cat 6 Aristotele annovera il numero, assieme al discorso, tra le quantità discrete, distinguendole dalle quantità continue, tra le quali annovera le linea, la superficie, il corpo o solido, assieme al tempo. Dunque, i numeri sono quantità discrete, mentre le grandezze geometriche sono quantità continue. Continuo, per Aristotele, è ciò che ha un confine in comune. Esso è una specie del contiguo, il quale a sua volta è una specie del consecutivo. Consecutivo è ciò in mezzo a cui non vi è nulla di omogeneo. Quando due cose consecutive si toccano in uno o più punti, le cose cono contigue. Così due linee sono contigue in un punto; due superfici sono contigue secondo una linea; due solidi sono contigui o secondo una faccia, ossia secondo una superficie, o secondo uno spigolo, ossia secondo una linea, o in un punto. Ebbene, due cose che non soltanto si toccano, ma hanno un confine comune, sono continue. Così le linee sono continue se hanno un punto in comune, giacché il punto non è parte della linea, bensì suo confine. Infatti, le parti di una linea sono linee, mentre il punto è il confine di una linea. Perciò due linee sono continue se hanno un confine, ossia un punto in comune, ossia sono continue nel punto, e poiché il punto non ha dimensione, esse verificano in tal modo una condizione per la quale la continuità coincide con la contiguità. Due superfici sono continue se hanno un confine, ossia una retta in comune. Poiché la linea ha una dimensione, la lunghezza, è chiaro che due superfici contigue non sono due superfici continue: due superfici contigue hanno come confini due linee distinte, cioè separate, ma in contatto, mentre due superfici continue hanno come confine la medesima linea, ossia: la linea che funge da confine dell'una, funge da confine anche dell'altra. Infine, è chiaro che due solidi sono continui se hanno una faccia, ossia una superficie in comune. Ebbene, il discreto è il contrario del continuo. In effetti, continuo e discreto cadono sotto la medesima categoria o genere massimo, ossia il genere della quantità, e entro di essa verificano la massima distanza, e i contrari - com'è noto - sono i termini massimamente distanti entro un genere. Ovvero - il che è lo stesso - il discreto è privazione della forma del continuo, e anche sotto questo profilo ne esprime il contrario, giacché, com'è altrettanto noto, la contrarietà è altresì privazione perfetta, vale a dire privazione della forma. Il numero, dunque, essendo quantità discreta, (a) è una quantità, rientra cioè in un genere categoriale che esprime non un soggetto (tale è la sostanza), ma un attributo, una proprietà; (b) è una quantità discreta, ossia un aggregato di determinazioni quantitative aventi tra loro confini separati.

Ora, proprio perché tali determinazioni quantitative non hanno confini comuni, ma sono separate, il loro essere assieme è un plethos, vale a dire una moltitudine, una molteplicità di determinazioni quantitative che, per il fatto stesso di non potersi costitutivamente unire ad altre e formare un continuo, sono determinazioni quantitative minime. Tali sono le unità, per cui il numero è un plethos, ossia una pluralità o un aggregato di unità, laddove una grandezza (megethos) non aggrega unità. Non solo, ma poiché il numero è costituito da quantità minime strutturalmente separate le une dalle altre, il loro essere insieme scandisce una successione e il numero stesso esprime successione, laddove le grandezze, per il fatto stesso di essere quantità continue, danno luogo a estensione. Il numero è così un aggregato di quantità discrete in successione, mentre le grandezze sono quantità estese. Proprio per questo, mentre le grandezze sono sia aumentabili che divisibili all’infinito, esprimono cioè l’infinito nella potenza sia dell’aggiunzione che della divisione, il numero è infinitamente aumentabile ma non anche infinitamente divisibile, giacché trova nell’unità il limite della sua divisione. Esso, cioè, esprime l’infinito nella potenza dell’aggiun-zione, ma non anche della divisione.

La differenza della dottrina aristotelica del numero da quella pitagorica, con la quale ha pur un tratto in comune, ed esattamente quello di concepire il numero come un aggregato di unità, è essenziale e, in ultima analisi, si áncora sul diverso modo di concepire l'unità. Per i Pitagorici, come abbiamo accennato, essa è un volume minimo, o - più precisamente - è un «uno dotato di posizione (monàs échousa thésin)». Ciò significa che i numeri, in quanto aggregati di unità cosi intese, hanno non solo un'esistenza reale, ma un'esistenza autonoma o separata, sono cioè sostanze e coincidono con le cose. Al contrario, per Aristotele l'essere dell'unità è di essere indivisibile e, come tale, di essere la misura minima in ogni genere e soprattutto nel genere della quantità, giacché la misura si confà innanzitutto con la quantità. Ma la quantità è un predicato, e un predicato, se non ha un'esistenza autonoma o separata o per sé, ha tuttavia un'esistenza reale, ossia, è una determinazione realmente esistente, anche se non esistente per sé. In tal modo il numero, in quanto aggregato di unità così intese, è la misura di una quantità, o meglio di un aspetto quantitativo, vale a dire di una proprietà reale, isolata da altre proprietà e studiata per se stessa. In questo modo il numero è «astratto», ma non nel senso che è una pura costruzione mentale, ma nel senso che, come si diceva, è la misura di una proprietà, tale per l'appunto essendo la quantità o, meglio, un tipo di quantità, isolata da altre proprietà, come il colore, il dove, il quando, ecc., e considerata per se stessa, ossia astrattamente da altre.

Di quale tipo di quantità o - se si preferisce - di quale aspetto della quantità è misura il numero, giacché la quantità ha molte specie?  La risposta è: dell'aspetto per cui la quantità complessivamente considerata di una cosa è pensabile come successione di quantità indivisibili di quella cosa  stessa, ossia: di quelle che in ogni genere di cose sono le unità. Il numero è esattamente la misura della quantità di unità, dove per unità s’intende la quantità indivisibile in ciascun genere di cose. Il numero sette, per esempio, indica la misura di quell'aspetto della quantità o di quel tipo di quantità che è il plethos, ossia la pluralità o moltitudine di quantità discrete minime, perché indivisibili, che in ogni genere sono le unità: per esempio, se le cose in oggetto sono le pecore, l'unita, ossia la quantità indivisibile, è la pecora, e il sette è la misura della moltitudine o pluralità di pecore. In tal senso il numero, è misura e al tempo stesso è anche misurato; infatti, in quanto indicazione della quantità di unità in un genere di cose, esso è misurato dall'unita. E ancora una volta si ha modo di verificare come il numero, essendo misura di una quantità, la quale è una proprietà ovvero un aspetto reale del genere di cose in oggetto, astratta da altri aspetti e studiato separatamente, non è affatto una mera costruzione mentale, ma l’elaborazione dottrinale di una dimensione categoriale dell’ente, e di una dimensione categoriale differente dalla sostanza. Ond’è che esso stesso non è sostanza.

Un ultimo problema conviene affrontare: è possibile per Aristotele l’applicazione dell’aritmetica e geometria ? È possibile numerare una figura, ossia dare la fisionomia di quantità numerica a ciò che è invece una quantità estensiva ? La risposta a questo problema esige di riflettere ancora sulla differenza strutturale tra i numeri e le grandezze al fine di cogliere, assieme allo specifico di entrambi, le condizioni alle quali tra queste due specie di quantità è possibile una convergenza. I numeri, in quanto misura della quantità di unità discrete, sono essi stessi quantità discrete, mentre le grandezze, in quanto quantità continue, tali cioè che - come s'è detto - ogni loro parte ha confini comuni con un'altra parte, non hanno propriamente un'unità, vale a dire una parte minima, perché essa sarebbe immediatamente connessa a un'altra parte così da formare un continuum, e proprio per il fatto di non avere un'unità le grandezze per Aristotele sono divisibili all'infinito.

Ma se non hanno un'unità possono tuttavia avere una misura: giacché è possibile assumere una parte della grandezza e farne un campione. Così, nella linea posso assumere una certa linea, quella definita dal cubito, e farne la misura della proprietà delle linee, ossia della lunghezza. Parimenti, posso assumere una superficie e farne la misura delle superfici e della proprietà di esse, vale a dire dell'estensione, e posso assumere uno stasimo e farne la misura del corpo e della sua proprietà basilare: il volume. Si tratta, ovviamente, di operazioni che non sono già conformi alla natura della grandezza (della linea, della superficie e del solido), ma che impongono un’unità di misura. Il numero è così la misura dei cubiti, delle superfici unitarie e degli stasimi, ossia la misura della quantità delle unità nel genere delle lunghezze, delle superfici e dei solidi, e in tal senso l'aritmetica è prima rispetto alla geometria, ossia permette di calcolare numericamente in campo geometrico. Anche la misura di una grandezza, essendo un numero, è pertanto la misura di una quantità di unità, come il numero è un aggregato di unità numeriche, ma con la differenza che le unità numeriche sono misure prime naturali rispetto al numero, mentre le unità geometriche sono misure prime convenzionali rispetto alle grandezze, le quali, in quanto quantità continue, non hanno per loro natura una misura minima, ma sono divisibili all'infinito. L’arresto della divisione del continuo in una parte minima che funga da misura è perciò un atto convenzionale.

L'abbinamento dell'aritmetica alla geometria è perciò, in sostanza, l'imposizione di una misura a ciò che è per sua natura non misurabile, e in questo senso la geometria è seconda rispetto all'aritmetica. Si tratta, in sostanza, di due ordini di quantità diversi, quello delle quantità discrete e quello delle quantità continue, e l'unificazione dei due piani è, in buona sostanza, una subordinazione dell'uno all'altro. Tale in significato della misura delle grandezze geometriche e tale il significato dell'unione di aritmetica e geometria.

 

 

 

[i] Relazione letta all' "Agorà Mediterranea della Conoscenza" sul tema "Scienza e Filosofia del Numero dalla Scuola Pitagorica all’odierna matematica", promossa dall’Istituto Internazionale di Epistemologia "La Magna Grecia" –  Santa Severina (Crotone), 29 novembre 2008.

 

 

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