TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      Numero 4/2008


 

Michele Borrelli

 

La svolta ermeneutica in filosofia

nel pensiero di Karl-Otto Apel
 

Heidegger pone l’ermeneutica sul piano ontologico della comprensione. Ciò avviene, in un primo momento, come ricerca del fondamento o della struttura ontologica del comprendere e successivamente col recupero di un concetto di essere che si dispiega nella temporalità dell’evento. L’ermeneutica dell’essere si avvera, di conseguenza, nel passaggio, che possiamo definire, dal cogito al sum e, più precisamente, nel passaggio dalla teoria del comprendere e dell’interpretare alla teoria della temporalità. Sono passaggi che segnano definitivamente la decostruzione della metafisica. Non a caso, l’unica vera ricerca di Heidegger può essere riassunta nella semplice (si fa per dire) domanda: qual è il senso dell’essere? Domanda da tener separata da quella di stampo esistenzialistico e che recita: qual è il senso della vita? Così posta la domanda, bisogna escludere in Heidegger l’equivoco della ricerca di un nuovo esistenzialismo o umanismo. Heidegger, infatti, rileva, con estrema radicalità, che la radice del nostro pensiero (l’errore imperdonabile di tutta la filosofia) non è la metafisica, ma l’essere. In poche parole: la filosofia, secondo Heidegger, è fallita perché ha dimenticato che le sue radici non sono la metafisica, ma l’essere. La filosofia, se vuole riappropriarsi di se stessa, deve, allora, ritornare alle sue origini e ripensare in modo nuovo l’essenza della metafisica che, nell’analisi tracciata da Heidegger, è l’essere. Tenendo conto di questa analisi, l’ermeneutica sviluppata da Heidegger è ermeneutica dell’essere; un’ermeneutica, cioè, che cerca tre cose: l’essere, il senso dell’essere, la verità dell’essere.

In quest’ottica, crollano le ontologie metafisiche tradizionali: dal regno (metafisico) dei fini di Kant al regno della libertà di Marx, non si può più pensare in termini di telos o mediazione spirituale fra ragione e esperienza storica né in termini di continuità storica intendendo questa come quel processo sensato di una ragione storica o di una ragione in generale che, alla fin fine (come credeva Hegel), si impone nella storia, nonostante gli ostacoli che la ragione (List der Vernunft) deve sempre e comunque storicamente affrontare e superare.

Quel che nell’ermeneutica dell’essere si chiede è, anzi tutto, la riscoperta dell’essere e ciò è possibile solo come ritorno obbligato al punto in cui, secondo Heidegger, avviene il mutamento dell’essenza della verità. Heidegger identifica questo punto già nel pensiero di Platone. A partire da quel pensiero, cioè, in cui la verità, intesa fin lì come svelatezza o discoprimento (aletheia/Unverborgenheit) e, quindi, costitutivamente come essenza stessa dell’essere, si trasforma via via in soggettività o meglio in soggettità (Subjektität) per usare il termine utilizzato da Heidegger. Con l’imporsi della soggettività, assistiamo, dunque, al rovesciamento del punto di vista di ciò che è la verità (dell’essere). Infatti, è la soggettività, nell’interpretazione heideggeriana, l’istanza di validità che pretende di cogliere l’essere nel suo essere e di pronunciarsi, in definitiva, sul senso dell’essere. L’imporsi della soggettività o soggettità sull’essere significa l’uscita dalla storia dell’essere e, conseguentemente, un porsi fuori dalla verità (dell’essere). Quest’uscita ci pone in balia del dominio dell’erranza o metafisica della presenza (Metaphysik der Anwesenheit) che travolge l’essenza dell’essere per un concetto di verità di cui si cerca, di volta in volta, il criterio, il punto (metafisico) di fondazione ultimo, la possibile universalizzazione. Dal punto di vista dell’ermeneutica dell’essere, Heidegger può allora chiedersi: “perché crediamo che la verità sia qualcosa che abbia bisogno di un criterio?”. In altri termini, per parlare di verità perché dovremmo ricorrere ad un criterio sovrastorico e di fondamento ultimo? È indubbia l’innovazione radicale che Heidegger sviluppa in questo suo modo originale di porre il problema dell’essere e della verità: all’assolutizzazione e sovratemporalità dell’essere viene contrapposta la temporalità e, quindi, la storicità dell’essere. Se seguiamo l’ermeneutica dell’essere, più che cercare criteri sovrastorici, dovremmo portare l’essere al linguaggio per ridare la parola nuovamente all’essere.

In altri termini, il problema non è la critica della ragione, i suoi limiti e le sue condizioni di possibilità (come ha tentato, per esempio, Kant), ma cercare, invece, di vedere come far parlare l’essere, tenendo fermo il fatto che spetta all’essere stesso, “aprendosi nella radura”, venire “al linguaggio”.

Da questi pochi accenni si nota già che l’ermeneutica dell’essere pretende una comprensione a livello ontologico-fondamentale, pretende, cioè, che l’interpretazione dell’essere non sia un prodotto del soggetto, ma che essa emerga, piuttosto, dalle cose stesse o meglio: dall’essere. Si fa avanti così un modo completamente nuovo di porsi del pensiero. Il pensiero (non più metafisico) e-sistente, nel suo dire, “porta al linguaggio questo adveniente”1. Ciò è possibile, nella logica qui avanzata, allorché e fino a quando il pensiero “viene elevato a sua volta nella radura dell’essere”. Così definito il pensiero, non è più filosofia nel senso tradizionale perché pensa in modo “più originario” della metafisica2. Cosa chiede, in definitiva, l’ermeneutica dell’essere rispetto a tutte le altre ermeneutiche e alla filosofia in generale? Essa chiede l’abbandono definitivo del linguaggio metafisico dell’ente per un linguaggio dell’essere (o della verità). Dire linguaggio dovrebbe significare, da un lato, far parlare l’essere; far parlare, cioè, la verità e non il soggetto, empirico o trascendentale che sia; dall’altro significa che la casa dell’essere non è l’uomo, il soggetto razionale e la sua metafisica, ma il linguaggio nel suo modo originario, nella sua forma iniziale di evento. Abitando questo linguaggio ancora originario, “l’uomo e-siste”, “appartenendo alla verità dell’essere e custodendola”3. Ecco allora la “svolta” che l’ermeneutica dell’essere ci indica non solo in termini di travolgimento di tutta la metafisica tradizionale, ma anche in termini di approdo di una filosofia “non più filosofia”. Questa Kehre, per le ricerche dell’autore di Sein und Zeit, si configura, come si anticipava, nel passaggio dal carattere trascendente dell’esserci alla temporalità quale orizzonte proprio dell’essere e più precisamente: nel passaggio dall’ontologia fondamentale, in cui si parte ancora dall’esserci (Dasein), ovverosia dalla capacità progettuale dell’uomo, all’evento (Ereignis) dell’essere. Nel saggio “Dell’essenza della verità”, Heidegger preciserà: “il salto nella svolta” è da intendersi come “una svolta entro la storia dell’essere” (Seyn)4. La “svolta”, infatti, non è da pensare come un “cambiamento del punto di vista di Essere e Tempo”, piuttosto nel senso che in essa “il pensiero che là veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Essere e Tempo, come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere”5. Con la svolta, pertanto, il problema della verità non è più posto sul piano trascendentale dell’esserci, ma sul piano della radura, o meglio: sul piano stesso dell’essere. Questo spostamento dall’uno all’altro piano (dal piano ontico al piano ontologico) ha per conseguenza il fatto nuovissimo che il luogo della verità non è più il soggetto, la ratio, il logos, ma la svelatezza, il discoprimento; non più l’apertura (Erschlossenheit), ma solo e semplicemente l’evento (Ereignis).

L’essere, a cui fa riferimento l’ultimo Heidegger, ha abbandonato il modo di essere dell’essente e rimane nascosto, impensato e ininterrogato nella sua verità fintantoché non avviene quel salto o Sprung nel Sein (o meglio: Seyn,) che in Essere e Tempo (come lo stesso Heidegger precisa) ancora mancava.

Ma in che cosa consiste poi effettivamente questo salto o Sprung e quali vantaggi avrebbe per la comprensione questa ermeneutica dell’essere rispetto alle altre ermeneutiche, per esempio rispetto all’ermeneutica filosofica di Gadamer o a quella critica o del profondo di Habermas? Intanto, bisogna precisare che questo salto, come può notarsi dalle mille suggestioni che offre Heidegger, è il salto dal primo inizio (e cioè: dall’inizio della filosofia occidentale, l’ontologia metafisica) all’altro inizio, all’inizio, cioè, di un pensiero non più metafisico. A ben vedere, non si tratta allora, dal punto di vista dell’ermeneutica dell’essere, di un salto qualsiasi, piuttosto del salto nell’essere o nella verità. Si tratta del passaggio da un essere che dispiega la sua essenza ancora come dischiudimento all’altro inizio e cioè: ad un essere che dispiega la sua essenza come evento.

Non è, allora, un semplice oltrepassamento dall’uno all’altro inizio (dalla dimenticanza alla manifestatività dell’essere), per esempio, per il tramite della mediazione del pensiero o per processo di riflessione. A rifletterci bene, l’altro inizio (cioè l’inizio postmetafisico) sta a significare che l’uomo dovrebbe trasformare la sua essenza. Successivamente a questa trasformazione, l’ente-uomo entrerebbe nelle condizioni di possibilità della domanda capace di cogliere l’essere, la sua verità e il senso della sua verità. Ma non finisce qui. Heidegger esige, inoltre, il passaggio da uomo razionale (metafisico) a uomo custodia dell’essere. Solo in questo caso si tratta del salto giusto: di un salto, cioè, come inizio ancora più originario, di un inizio iniziale a monte del primo inizio, in altri termini, dell’inizio di un pensiero nuovo, dell’inizio che apre una nuova storia, di un inizio che non è più quello metafisico o l’inizio del niente o dello sprofondare del pensiero nel nichilismo, ma il manifestarsi stesso dell’essere: si tratta, in ultima analisi, di essere nell’essere, di vivere nell’essere e con l’essere. Di un inizio, allora, finalmente vero, nuovo, se vogliamo appunto postmetafisico o postfilosofico, ovverosia di un pensiero che finalmente non è più metafisica, ma linguaggio e parola dell’essere.

Il vantaggio dell’ermeneutica dell’essere rispetto a tutte le altre ermeneutiche consisterebbe nel fatto che la prima, sciolta da ogni residuo di legame metafisico, non solo porterebbe per Heidegger – contrariamente a tutte le altre – l’essere al linguaggio, ma restituirebbe la parola e, quindi, la verità all’essere. Ciò spiega il perché, per Heidegger, nei passaggi sopra menzionati dall’uno all’altro piano (della conoscenza) ci giochiamo l’impostazione del problema filosofico più arduo e irrisolto da sempre e cioè il problema della verità. Ma i passaggi a cui fa riferimento Heidegger non sono un problema di scientificità o più scienza, in quanto che, per l’ermeneutica dell’essere, “la scienza non pensa”. Anzi, non solo la scienza, che tutti invocano, “non pensa”, ma, non pensando, nemmeno coglie la verità. Decisivo, allora, nell’impostazione heideggeriana, è poter far emergere quel pensiero dell’essere che non è più filosofia in quanto pensiero non più metafisico. Vi è bisogno, dunque, di un pensiero nuovo, di un pensiero che, a questo punto, non è né mio né tuo né nostro, ma dell’essere stesso. Infatti, ciò di cui si parla come pensiero e interrogazione nei passaggi che intercorrono tra il primo e l’altro inizio, avviene non per facoltà del soggetto, ma dall’intonazione (Einklang) dell’essere, nella necessità della dimenticanza dell’essere, come salto, quindi, nell’essere per la ‘fondazione’ della sua verità come preparazione a quelli che in futuro sono in mezzo (zwischen) o tra uomo e Dio.

Ma che cosa dobbiamo intendere con questo in mezzo o tra (zwischen)? Con questo in mezzo o tra dobbiamo intendere la verità dell’essere (Seyn), la radura (Lichtung) dell’essere che si avvera non come procedura di scienza, ma come accadimento, non per volontà del soggetto, ma per apertura dell’essere.

Cosa ci dice di nuovo l’ermeneutica dell’essere rispetto alle altre ermeneutiche e al filosofare in generale? L’ermeneutica dell’essere ci dice che l’uomo può certo appartenere a questo accadimento, ma non certo come soggetto dell’accadere o come scienziato o possessore di verità, piuttosto solo come chi nell’accadimento è usato. Usato, da intendere nel senso che l’uomo è riportato a ciò che è proprio suo ed in esso l’uomo è, come tale, appunto, mantenuto o trattenuto.

In altri termini, nell’ermeneutica dell’essere l’evento (Ereignis), se da un lato, è se stesso, dall’altro, è pensato come rapporto di co-appartenenza all’ente-uomo. E ciò perché il Dasein dell’umano è situato nell’apertura o radura dell’essere. Ma l’ente-uomo è situato non nell’assolutezza dello spirito hegeliano o nell’Io-trascendentale di Kant, piuttosto nella storicità o temporalità del Dasein. In definitiva, la temporalità costituisce il Dasein. Per cui non c’è una linearità e un susseguirsi (un imporsi hegelianamente della ragione nella storia, un logos, una provvidenza, un Dio) che progressivamente illuminano sempre meglio e sempre di più il cammino umano tortuoso dall’ignoranza alla conoscenza e preparano, quindi, il passaggio dal male al bene ecc.. La verità non solo non ha nulla da condividere col procedere delle scienze e con i criteri di esse, ma non è nemmeno un prodotto del soggetto e ancor di meno un prodotto della sua metafisica. L’essere (che è se stesso) può darsi come sottrarsi e, conseguentemente, anche la verità può svelarsi o velarsi. Col che, per Heidegger, si conferma che la verità non è dell’uomo né della sua intenzione e intuizione. Essa è della storia dell’essere; è movimento a partire dall’essere, per cui non si giunge alla verità attraverso ricerche scientifiche o fatica concettuale nel senso hegeliano. Ciò spiega, inoltre, anche l’altra formula heideggeriana secondo la quale nella verità “si è o non si è”, che sta ad indicare l’essere o non-essere all’interno della radura o apertura dell’essere.

Ora, e riprendendo la domanda sopra menzionata, quali sono, dunque, per la comprensione e l’interpretazione i vantaggi legati ad un concetto di ermeneutica dell’essere rispetto alle altre ermeneutiche? In verità non si capisce bene quali siano questi vantaggi, soprattutto se si parte dal presupposto dell’ultimo Heidegger secondo cui pare che la metafisica è in un certo senso un destino a cui soggiace l’essere stesso, tal che solo consumando (Verwindung) questa metafisica al suo interno si porterebbe a compimento l’avverarsi di ciò che è anche il destino dell’essere. Ma come dovrebbe avvenire questa consumazione della metafisica, se la metafisica è destino dell’essere ed è, quindi, sottratta alle possibilità d’intervento dell’ente uomo? E come giungere all’altro inizio, che deve susseguire al primo inizio, come giungere, cioè, a quel nuovo inizio oltre-metafisico, libero ormai dal velarsi dell’essere, se il velarsi e lo svelarsi non dipendono dall’ente uomo ma dall’essere? Come si avvera quell’apertura postmetafisica che s’impone dall’intonazione (aus dem Anklang) dell’essere “nella necessità” della dimenticanza e dell’abbandono dell’essere, in cui il destino metafisico, che ha raggiunto con la tecnica il suo culmine, consuma anche i suoi ultimi resti e apre così, a partire dall’altro inizio, alla verità dell’essere e può finalmente porsi da sfondo a quelle figure umane dell’ “ultimo Dio” che è “l’inizio della storia futura”? L’ermeneutica dell’essere produce domande e interrogativi, ma non dà risposte né emergono al suo interno condizioni di possibilità di soluzioni per chiarire l’enigma e il mistero dell’aprirsi dell’essere e del suo significato. Il problema della verità, della conoscenza e dell’interpretazione rimane in balia della temporalità dell’evento ed è cosa del destino dell’essere. La stessa ermeneutica dell’essere rimane imprigionata e paralizzata da un destino che non si sa da chi muove e qual è il suo senso e il suo fine, per cui essa rimane completamente impotente di fronte all’avverarsi di un destino che non è suo e che può solo registrare nella sua irriducibilità.

E s’è così, penso che nella storia del pensiero occidentale si può notare l’ulteriore fallimento di un’impostazione, promettente e indubbiamente originale, che cerca di oltrepassare il (pensiero) metafisico per riportarsi sul piano della verità, ma che è completamente incapace di costituirsi come quell’altro (il non metafisico) che rende possibile l’accesso alla verità e al suo senso.

A questo punto ci si può chiedere: è pensabile un pensiero post-metafisico che non cada nel vuoto di espressioni come quelle heideggeriane di storia dell’essere e destino dell’essere, espressioni che rendono impotente e deresponsabilizzante l’agire umano assoggettandolo all’agire di una storia (dell’essere) non più sua?

Per rispondere a questa domanda, mi affido all’ermeneutica trascendentale di Karl-Otto Apel e chiedo con lui: è il logos del discorso argomentativo a far dipendere il suo fondamento di validità dal senso temporale dell’essere e, quindi, dalla storia (epocale) dell’essere o sono la temporalità dell’essere e la storia epocale dell’essere a ricevere dal discorso argomentativo il loro fondamento di validità? In modo più generalizzato: la pretesa di validità di una asserzione filosofica (di ogni asserzione filosofica) dipenderà dal logos della temporalità e della storicità dell’essere o dal logos sovratemporale e sovrastorico del discorso argomentativo? In altri termini: è possibile ancora parlare di pretesa universale della validità in riferimento a un logos trascendentale o tutto dipende dagli stili di vita o modi di vivere (Wittgenstein) o da aperture storiche (Heidegger) razionalmente non controllabili? E ancora: è possibile parlare di fondazione, o meglio di fondazione ultima, nonché di etica del discorso e fondazione dell’etica o fondazione di norme, in ultima analisi, di fondazione della scienza e della filosofia?

Rispondere a questi interrogativi significa, evidentemente, portarsi oltre i confini designati sia da un’ermeneutica della comprensione dell’esserci (del primo Heidegger) o, in generale, della storia dell’essere (dell’ultimo Heidegger), sia da quelli designati da un’ermeneutica filosofica tutta situata entro i limiti della comprensione storica, com’è quella delineata da Gadamer, né è sufficiente, penso, come mostra con chiarezza Apel, la consapevolezza dei giochi linguistici di Wittgenstein.

In prospettiva ermeneutico-trascendentale, si rivendica, rispetto all’ermeneutica dell’essere di Heidegger e all’ermeneutica della storicità di Gadamer, nonché ai giochi linguistici di Wittgenstein, la domanda relativa alla pretesa di validità (universale) che, come pretesa filosofica, è assegnata - come mette in luce Apel - costituzionalmente e, non da ultimo, al domandare stesso e, in modo più generalizzato, al discorso argomentativo (ad ogni discorso argomentativo), nonché ed in ultima analisi: ad ogni asserzione messa in gioco nel discorso filosofico serio. Tal che, certo, si può rinunciare a questa pretesa e anche confutarla, ma significherebbe cadere in ciò che Apel definisce una autocontraddizione performativa o nell’annullamento della validità del (proprio) discorso.

Ma entriamo più da vicino nel contesto dell’ermeneutica trascendentale di Karl-Otto Apel per analizzare lo sfondo a partire dal quale se, da un lato, è stato possibile - con la svolta linguistica ed ermeneutica in filosofia - superare la filosofia coscienzialistica della modernità, dall’altro si è generata una situazione di dubbio generalizzato sulle possibilità autofondative del discorso filosofico che ha gettato insicurezza e scetticismo sulla condizione concernente la pretesa di validità (universale) delle proposizioni (di ogni proposizione) e ha condotto ad un relativismo radicale o mitizzazione della contingenza storica.

Si può e si deve notare che, proprio riguardo a questa caduta nella contingenza storica, è di fondamentale importanza il ruolo storico giocato, soprattutto, dalle impostazioni teoretiche di Wittgenstein e Heidegger (non sottovalutando, però, il contributo che, in questa direzione, proviene dall’ermeneutica di Gadamer). Impostazioni alle quali Apel assegna due possibilità di interpretazione: da un lato, la possibilità, aperta da Wittgenstein e Heidegger, di una trasformazione e ricostruzione postmetafisiche della filosofia, considerando il gioco linguistico discorsivo che è impegnato nella ricerca delle condizioni di possibilità e di validità della critica del senso e, quindi, della critica filosofica linguistica o di un’ermeneutica critica; dall’altro, la possibilità di interpretazione, aperta anch’essa da Wittgenstein e Heidegger, della negazione del senso della filosofia. Di una filosofia, cioè, a cui Wittgenstein e Heidegger negano, a priori, ogni pretesa di verità e che, di conseguenza, nel caso di Wittgenstein, è ridotta solo ancora ad autoterapia, nel caso di Heidegger a metafisica della presenza, per cui è giusto reclamarne la radicale distruzione e sperare nell’avvento o evento (a-razionale) delle radure epocali dell’essere.

Se seguiamo l’ermeneutica trascendentale di Apel, tra queste due interpretazioni, quella vincente (come dimostrano tra l’altro il postmodernismo di Lyotard e il decostruttivismo di Derrida) è quest’ultima: ossia la tendenza al misconoscimento totale delle possibilità fondative di senso e verità legate al discorso filosofico e la susseguente corsa all’autodistruzione o autoannullamento della ragione filosofica6.

Passiamo, intanto, alla prima interpretazione e cioè all’importanza decisiva, che, secondo Apel, a prescindere dalla seconda interpretazione, bisogna assegnare alla svolta linguistica ed ermeneutica in filosofia avviata da Wittgenstein e Heidegger. Indubbiamente, per questa svolta fu rilevante la critica che, come si anticipava sopra, Wittgenstein e Heidegger svilupparono contro il mentalismo o coscienzialismo della filosofia moderna, o meglio: contro la riduzione della realtà a mondo interiore, a percezione, a sensazioni oppure a rappresentazioni. Col concetto di critica del senso e critica del linguaggio di Wittgenstein e con la svolta ermeneutica della fenomenologia (Heidegger), si può superare – come mette in luce Apel – il paradigma del pensiero moderno della filosofia della coscienza che assegna la priorità della certezza all’immanenza della coscienza e al solipsismo metodico e assolutizza la relazione soggetto-oggetto della conoscenza7.

Ora, come sottolinea Apel, rilevante per la conoscenza non è la visione post-occamica, o meglio post-cartesiana, cioè l’ evidenza dell’esperienza interiore (o la certezza soggettiva dell’esperienza interiore), ma l’evidenza intersoggettiva. Vale a dire che, accanto alla relazione soggetto-oggetto, bisogna considerare, in senso complementare, la relazione soggetto-co-soggetto8. In altri termini: non solo non si può assegnare alla coscienza interiore rispetto all’intersoggettività priorità conoscitiva, ma nemmeno le si può conferire un proprio campo di conoscenza specifica, in quanto sia le pretese di conoscenza che le pretese di verità e, non da ultimo, il contenuto stesso del senso che viene ad espressione in queste pretese, rinviano (come evidenzia giustamente lo stesso Wittgenstein) ad un linguaggio condiviso con altri e non ad un linguaggio privato.

Il linguaggio si eleva ad a priori della conoscenza e della comunicazione, della validità e della giustificazione. Detto nel senso dell’ermeneutica trascendentale di Apel: il nuovo paradigma della filosofia non consiste nel comprendere isolato (nell’ego cogito), ma nella validità intersoggettiva del comprendere, nel comprendere qualcosa in quanto qualcosa e nell’intendersi intersoggettivamente su qualcosa9. Ma comprendere qualcosa o intendersi su qualcosa, se si segue già anche Wittgenstein, non è, appunto, il prodotto dell’esperienza interiore, isolata, del singolo soggetto, ma espressione dell’esperienza legata al mondo esterno10, o meglio: espressione di un’esperienza di comprensione pubblica legata a regole e criteri (pubblicamente) controllabili e correggibili. Il prezzo, però, che si paga con la messa allo scoperto dell’a priori del mondo della vita (Lebenswelt) e della fattività e storicità dell’essere-nel-mondo (Heidegger) e conseguentemente con l’intreccio fra giochi del linguaggio e modi di vivere (Lebensformen), è l’aver consegnato la pretesa di validità della scienza al relativismo e le pretese di validità universale, delle proprie proposizioni, all’a priori della fattività della storia dell’essere o all’a priori di determinati giochi linguistici11. La contraddizione performativa che si crea in questo passaggio dalla filosofia della coscienza alla svolta linguistica e all’ermeneutica dell’essere e, per meglio dire, col relativismo susseguente alla svolta linguistica ed ermeneutica sul modello di Heidegger, trova espressione e conferma, da un lato, nel neopragmatismo (Rorty) e nel postmodernismo (da Lyotard a Derrida), dall’altro nell’autoannullamento, come detto sopra, delle possibilità fondative della filosofia.

La collocazione della critica del senso dell’ultimo Wittgenstein12 nel relativismo dei giochi linguistici, legati a determinati modi di vivere, trova convalida nella riduzione heideggeriana della verità a evento temporale di dischiudimento fattuale-storico di apertura di senso dell’essere. Similmente a Wittgenstein, Heidegger non intende il concetto di verità nel senso universale (controfattuale) di validità, ma nel senso di apertura fattuale (storicamente condizionata) di dischiudimento dell’esser(ci).

Posta così la linea teoretica che unisce Wittgenstein e Heidegger nel parallelismo della prima possibilità di interpretazione, in cui, come si rilevava, entrambi i pensatori concordano con la critica al mentalismo o coscienzialismo della filosofia moderna e aprono alla svolta critico-linguistica ed ermeneutica, si tratta ora di richiamare l’attenzione sul parallelismo della seconda possibilità di interpretazione: la decostruzione della comprensione del mondo e dell’idea di verità della metafisica occidentale.

Ora qual è il punto di riferimento di questa evocata decostruzione? Indubbiamente, il presupposto della decostruzione o distruzione è frutto dell’assolutizzazione dell’a priori della contingenza o, per meglio dire, del sempre nostro mondo della vita storicamente condizionato, a monte del quale non ci si può porre data la diversità dei modi di vivere e la molteplicità dei giochi linguistici. Effettivamente, in questa logica si deve escludere una comprensione comunicativa (un intendersi su qualcosa, ovvero: una possibilità di fondazione) tramite il linguaggio.

Riassumendo si può, alla fin fine, tener fermo che al relativismo sincronico (dell’approccio di Wittgenstein) corrisponde - come mette in evidenza Apel - il relativismo diacronico (di Heidegger) delle radure epocali del mondo, originate dalla storicità dell’essere; corrisponde, cioè, il relativismo derivante, da un lato, dall’inaggirabilità della molteplicità dei giochi linguistici e, dall’altro, il relativismo derivante dall’inaggirabilità delle radure epocali della storia dell’essere. Il relativismo di Wittgenstein ha origine, quindi, nel presupposto che ogni linguaggio è situato in una determinata Lebensform, con determinati costumi, usanze e convenzioni: ciò, per Wittgenstein, fa presumere, anzi conferma o convalida, l’impossibilità per il linguaggio di spingersi, oltre la contingenza dei molteplici giochi linguistici, verso condizioni di possibilità di un’intesa unitaria. Questa riduzione del gioco linguistico filosofico a storicità di determinati modi di vivere pone Wittgenstein - così Apel - sullo stesso piano heideggeriano di riduzione alla fattività in cui l’essere-nel-mondo è “progetto” storicamente “gettato”.

Se seguiamo Wittgenstein e Heidegger non c’è, evidentemente, possibilità per il discorso filosofico di portarsi a monte dei giochi linguistici di volta13 in volta storicamente dati. Ma questo riduzionismo non è, certo, la conclusione necessaria del gioco linguistico filosofico, piuttosto esso è espressione - secondo Apel - di una dimenticanza-del-logos, ovverosia: è un deficit di riflessione, rispetto, addirittura, ai presupposti del proprio gioco linguistico-filosofico e alle pretese di validità del proprio discorso.

Wittgenstein - secondo Apel - confonde il suo gioco linguistico con i giochi linguistici che prende in esame, col che ovviamente vengono effettivamente a cadere le pretese di validità della propria argomentazione. Ma anche Heidegger non fa di meglio, infatti si affida, in un primo momento, alla fattività dell’essere-nel-mondo come “progetto gettato” (primo Heidegger), poi, addirittura, all’evento epocale della radura della storia dell’essere (secondo Heidegger). In entrambi i casi si annullano le pretese di validità del proprio gioco linguistico e si apre, come in Wittgenstein, non ad uno schiarimento della critica del senso, ma a ciò che con Apel possiamo definire: la paralizzazione della ragione. Per quel che riguarda la comprensione, questo risultato, ovviamente, non dà all’ermeneutica dell’essere nessun vantaggio rispetto alle ermeneutiche di Gadamer e Habermas e ancor meno si nota un qualche vantaggio nei confronti dell’ermeneutica trascendentale elaborata da Apel, tutt’altro.

 

 


1 Cfr. M. Heidegger, Brief über den “Humanismus”, Klostermann, Frankfurt a. M., 1976; Lettera sull’‚umanismo’, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1995, p. 100.

2 Cfr., ivi, tr. it., p. 103

3 Cfr., ivi, p.60.

4 Cfr. HGA IX, p. 201, tr. it. a cura di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 156.

5 Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’‚Humanismus’, cit., p.52.

6 Cfr. K.-O.Apel, “Die Herausforderung der totalen Vernunftkritik und das Programm einer philosophischen teorie der Rationalitätstypen”, in Concordia, II, 1987, pp. 2-23.

7 Per la tematizzazione del contesto rinvio al mio saggio: “La pragmatica trascendentale e la complementarità delle metodologie”, in K.-O.Apel, Lezioni di Aachen e altri scritti, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2004, pp. 17-37.

8 Cfr. K.-O.Apel, “La dimensione ermeneutica della scienza sociale e il suo fondamento normativo”, in Idem, Lezioni di Aachen e altri scritti, cit., pp. 79-119.

9 Cfr. K.-O.Apel, Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2005.

10 In Essere e Tempo, Heidegger parla espressamente dell’esserci, come essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein), ovverosia con-essere (Mitsein), cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen, 1993, cfr., cap. IV, p. 148, § 26, pp. 152-162.

11 Cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1958.

12 Cfr. L. Wittgenstein, Della certezza, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1978, p. 124.

13 Alla dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit), messa in evidenza da Heidegger nei confronti dell’ontologia metafisica del pensiero occidentale, Apel risponde con la dimenticanza del logos (Logosvergessenheit) nei confronti del pensiero della Destruktion teoretizzato da Heidegger. Sul concetto di Destruktion, cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., §6, pp. 19 sgg.

 

Bibliografia:

Karl-Otto Apel, Lezioni di Aachen e altri scritti, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2004.

Karl-Otto Apel, Cambiamento di paradigma. La ricostruzione trascendentalermeneutica della filosofia moderna, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2005.

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    TOPOLOGIK.net   ISSN: 1828-5929

Collana di Studi Internazionali di

Scienze Filosofiche e Pedagogiche

N° 4/2008