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Sulla dignità dell’Università e della Pedagogia e sul dovere di educare

 

Luciano Corradini

 

 

Il 12 gennaio nell’Aula del Rettorato dell’Università Roma Tre si è tenuta la cerimonia per la consegna a nove docenti dell’Ateneo, appartenenti a diverse Facoltà, della medaglia con dedica e del decreto ministeriale con cui sono stati insigniti del titolo di professore emerito. Quattro di questi colleghi appartengono all’area pedagogica: Bruno Bellerate, Luciano Corradini, Ferdinando Montuschi, Fabrizio Ravaglioli. Al termine delle laudationes compiute dal preside Francesco Susi, gli emeriti hanno pronunciato un breve discorso. Quello che segue è il testo dell’intervento di Luciano Corradini, proposto in quella sede in forma più colloquiale e sintetica.

 

 

 

Dopo l’elogio che mi hanno rivolto il rettore Fabiani e il preside Susi, mi pare giusto partecipare a questo giorno festoso con un elogio all’Università, alla Facoltà di Scienze della Formazione, alla Pedagogia, all’Educazione e infine all’Associazionismo.

 

 

L’Università

 

Ho iniziato il mio percorso universitario nel 1954, dopo il concorso per il posto gratuito che mi fu assegnato dall’Università Cattolica di Milano nel collegio Augustinianum, per il corso di laurea in filosofia. Sono stati anni molto impegnativi e molto belli: con alcuni maestri ho avuto l’occasione di collaborare, curando le dispense dei corsi. Ma ci ho incontrato anche amici che sono restati per tutta la vita, fra i quali sono lieto di salutare qui l’amico Leandro Polverini, ordinario di storia romana nel nostro Ateneo; e la signorina Bonomelli, che ora è la nonna dei miei dieci nipoti.

 

Quando il Rettore ha parlato di comunità universitaria, non ho inteso l’espressione come retorica, ma come espressiva della sua originaria potenzialità di valorizzazione di quel dialogo fra studenti e docenti che costituisce una forte motivazione non solo ad apprendere, ma a sviluppare, talora nell’amicizia, le dimensioni personali, civiche e professionali, oltre le dimensioni di natura strettamente scientifica. Mi sembra che questa festosa cerimonia sia un’occasione privilegiata per far incontrare diverse generazioni di docenti, di ricercatori e di studenti, e per alimentare, sia pure in una eccezionale mattinata, questo prezioso e delicato spirito comunitario.

 

Dopo la laurea e il perfezionamento, non sono rimasto in università come assistente, ma ho insegnato per anni nella scuola secondaria, dove avrei continuato volentieri, se Aldo Agazzi, Carlo Perucci e Mario Mencarelli, in occasione dei corsi di aggiornamento per insegnanti che organizzavo a Reggio Emilia, non mi avessero convinto a riprendere il cammino universitario, come addetto alle esercitazioni, per aiutare gli studenti a diventare insegnanti. Poiché non erano state ancora istituite le SSIS, mi trovai quasi costretto a seguire la strada della ricerca e dei concorsi universitari. Fu così che sbarcai alla Statale di Milano, dove restai per 15 anni, nella Facoltà di Lettere e Filosofia, prima di venir chiamato al Magistero di Roma La Sapienza, a succedere a quel grande maestro e amico che è stato per me Mauro Laeng. Sono stati, quelli, dal ’90 al 2000, anni di grandi trasformazioni delle nostre strutture accademiche.

 

 

La Facoltà e la SSIS

 

Roma Tre è nata nel 1992 e la Facoltà di Scienze della Formazione nel 1995. Nel ’98 e nel ’99 hanno iniziato la loro vita istituzionale i corsi di laurea in Scienze della formazione primaria e le Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario. Sono contento d’aver collaborato in qualche modo anch’io, anche dal CNPI e dal Governo Dini, alla loro nascita e al loro funzionamento. Sono stati percorsi molto faticosi, al limite della disperazione, ma alla fine credo che si possa dire che ne valeva la pena e che il senso di inadeguatezza personale e istituzionale che ho provato, è stato largamente compensato da quello che abbiamo costruito insieme, come soggetti capaci di intercettare in qualche modo i bisogni formativi delle nuove generazioni. E ora constatiamo che qualcosa di importante sopravvive alle nostre vicende personali. Non abbiamo solo subito il cambiamento sociale: in buona misura lo abbiamo voluto e governato, anche maturandone le convinzioni e le condizioni, nell’ambito delle consulte e delle associazioni pedagogiche, anzitutto l’ASPeI e la SIPED. E così veniamo alla pedagogia.

 

 

La Pedagogia

 

Fare l’elogio della Pedagogia non è facile. A stare ad alcuni giudizi che si leggono sui giornali, chi professa la pedagogia non dovrebbe avere diritto di parola in questioni che riguardano l’educazione e la scuola. Accuse, ironie e silenzi nei riguardi di questa disciplina e di chi la rappresenta non sono una novità. Ma recentemente si è superata ogni immaginazione sociologica: un celebre collega ha scritto sul Corriere della Sera che “negli ultimi quarant’anni i pedagogisti hanno quasi distrutto le basi del pensiero razionale e i fondamenti della nostra civiltà”. Questa volta la colpa è, letteralmente, quella d’aver eliminato le date, “togliendo dalle scuole l’obbligo di mettere i fatti in ordine cronologico”. La conclusione del ragionamento è un invito al Ministro a cacciare tutti i pedagogisti dal Ministero. Voglio perciò ringraziare questo Ateneo e la mia Facoltà, che ne hanno addirittura onorati quattro, facendoli professori emeriti. E naturalmente ringrazio il Ministro Gelmini, che ha firmato i relativi decreti.

E’ un po’ come se la medicina e il diritto fossero incolpati genericamente delle malattie inguaribili e dell’ignoranza delle leggi o delle lungaggini dei processi, invece che considerati come risorse per la soluzione dei problemi di cui professionalmente si occupano medici e giuristi. Riconoscere i nostri limiti non significa accettare in silenzio critiche superficiali e ingiuste, che possono avere effetti pesanti sul destino degli studi pedagogici, sia nella scuola, sia nell’università.


La mia difesa della Pedagogia prende atto con preoccupazione che tutto un orizzonte di valori, di saperi e di mentalità da cui si alimenta (e che contribuisce a costruire) la pedagogia generale, intesa come luogo di ricerca e d’impegno attento alla teoresi e alla prassi, in una prospettiva di sintesi, tende lentamente a scomparire, come le lucciole pasoliniane, dai cieli dell’università e della scuola. Nelle facoltà sorelle di Lettere e Filosofia, di Sociologia e di Psicologia non c’è posto per noi, che pure accogliamo tutti nelle scienze dell’educazione. Nell’attuale clima sociale, le esigenze della produzione e del consumo tendono ad occupare tutti gli spazi disponibili di curricoli sempre più articolati, brevi, funzionali al lavoro da compiere. Posti fra loro in alternativa, ciò che è urgente viene quasi sempre prima di ciò che è importante. E poiché ciò che è importante non manifesta la sua potenza nei tempi brevi, si finisce per ritenerlo anche meno importante di ciò che è urgente.


Per dirla nei termini di un’annosa e mai sconfitta polemica, l’attenzione prevalente della cultura che ha accesso ai mass media è rivolta all’istruire piuttosto che all’educare, anche se si evoca l’emergenza educativa, di fronte al malessere diffuso, alla demotivazione al lavoro scolastico, alla mancanza di orientamento e alle devianze che crescono, nonostante la scuola.

Forse si avverte che la crisi scolastica è tale che non si può rinunciare a nessuna prospettiva, antica o recente, che possa dare un contributo a rendere la scuola più decente, più credibile e più gratificante. Il discorso vale anche, e prima di tutto, per la famiglia.


Quando è fondato, solido, illuminante, il sapere pedagogico, anche se non celebrato e remunerato, può dare un valido contributo a colmare il vuoto esistente fra il sempre più diffuso bisogno esistenziale di sapere, di saper fare e di saper essere, e le risposte che vengono, quando vengono, dall’apparato scientifico-tecnologico: quell’apparato che tutto sembra dominare e risolvere, ma che resta poi muto di fronte alle domande radicali circa il senso della vita, circa ciò che è bene e male, ciò che è meglio fare o non fare, e soprattutto circa ciò che è possibile far capire e far fare.

 

La pedagogia aspira ad essere, sul piano scientifico e sapienziale, un faro che illumina e orienta, non un sapere “duro”, di tipo incontrovertibile: ossia da un lato solo sperimentale e dall’altro rigidamente prescrittivo. Come ricordava Laeng, quello pedagogico è un sapere che assume come proprio oggetto/compito la comprensione critica dei soggetti, dei fini e dei metodi delle relazioni educative, così come queste si realizzano di fatto, cercando anche le vie più efficaci per rendere possibili interventi di tipo migliorativo, analogamente a quello che fa la medicina per la promozione della salute.


Università, Scienze della formazione e Pedagogia sarebbero, dal mio punto di vista, macchine che girano a vuoto, se non ci fosse alla base l’educazione.


 

L’educazione


Quando mi trovo nella tempesta del dubbio circa la legittimazione ad educare (si deve, ma si può? si domanda Giuseppe Angelini), mi torna in mente il Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani: vi si dice che questa è stata proclamata, "affinché ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo rispetto…"

 

Si tratta del messaggio e della consegna più autorevole e più importante di cui dispongano laicamente le società del terzo millennio, per salvare dalla catastrofe la nostra riverita specie e l’intero Pianeta. L'appello è rivolto anzitutto a ciascuno di noi ("ogni individuo e ogni organo della società"), non solo perché tenga "costantemente presente" la Dichiarazione, ma perché "si sforzi di promuovere il rispetto di questi diritti e di queste libertà", "con l'insegnamento e l'educazione". Prima del diritto all’educazione qui si afferma il dovere di educare: o meglio il dovere di sforzarsi di farlo.

 

Insegnamento ed educazione non sono dunque funzioni specifiche ed esclusive di organismi specializzati, ma attività generali e comuni, almeno potenzialmente, a tutti gli individui e a tutti gli organi della società, e non solo ai filosofi, ai politici e ai militari, nelle cui categorie sono cresciuti coloro che ci hanno regalato la guerra. E hanno un valore eminentemente politico, se è vero che compito principe della politica è promuovere la pace nella libertà e nella giustizia. Anche richiamare alla memoria quei princìpi, che sono insieme diritti e doveri, e lottare per attuarli e per farli attuare nella pratica, ha valore educativo e quindi politico.

 

Purtroppo, come la politica, intesa in senso specifico, così anche l'educazione, da quella familiare a quella scolastica a quella diffusa, non ha mantenuto nel tempo le sue promesse: in altri termini si sono rivelate insufficienti a produrre una "vita buona", sia le "forze forti", che si esprimono attraverso leggi, intese diplomatiche, denari, eserciti e polizie, sia le "forze deboli" che si esprimono attraverso l'esempio, la parola, la relazione intenzionalmente volta a creare convinzioni e dubbi, facendo leva sulla conoscenza, sui valori e sull'esercizio autonomo e responsabile della libertà.

 

Nelle questioni di morale, di politica e di educazione non vale però la legge del tutto o nulla. Se non c'è limite al peggio, neppure allo sforzo di fare meglio ha senso porre un limite, dando a priori per persa la partita, quando ancora ci sono alcune carte da giocare.

 

Le carte di cui la maggior parte delle persone dispone non sono immediatamente utilizzabili per i grandi giochi della politica, dell'economia, dei circuiti della cultura di massa, sicché molti si ritengono semplicemente fuori gioco, liberi solo di lamentarsi o di divertirsi.

 

Bisogna resistere a questa deriva rinunciataria, pensando che, in ultima analisi, anche le grandi decisioni sono frutto di scelte di persone singole, capaci di influenzarsi a vicenda e di pesare in qualche modo sugli esiti finali dei processi. Con internet la cosa è più a portata di mano, come dimostra per esempio l’elezione di Obama alla presidenza degli USA.

 

 

Il nesso educazione-pedagogia

 

L’educazione ha a che fare col futuro, con un desiderio o con una volontà di anticipare i fatti con la ragione, di fasciare questo misterioso fenomeno della vita, che erompe e sparisce come un evento sottratto al nostro controllo, con un pensiero ed una voce che lo accolgano e possibilmente restino nell'aria anche dopo l'ultimo definitivo silenzio. Tutta la cultura è sforzo per rischiarare il buio dell'origine e quello della fine, e per riempire, col canto della poesia, col sapere della filosofia e della scienza, o con l'invocazione della preghiera, quello che Foscolo chiamava "di mille secoli il silenzio". In questo senso tutte le discipline educano, se coltivate e insegnate con intelletto d’amore.


La pedagogia, sollecita di questa capacità dell'uomo di articolare pensieri, di emettere suoni, di scrivere e di capire messaggi, e di proiettarsi, con la memoria, l'intelligenza e l'immaginazione, più indietro e più avanti che può, si affatica in particolare là dove non sorge ancora o si spegne la voglia di parlare, di capire, di comunicare, di trascendersi, là dove i fatti sembrano privi di ragioni e dove tutta la vita sembra priva di senso.


La prospettiva pedagogica consiste nel non restar prigionieri dell'io, del qui e dell'ora, ma nel tener ferma la possibilità di far diverse tutte le cose, attraverso un dialogo impegnativo e sincero, perché nessuno si riduce a quello che è stato, perché nessuno è tutta la verità o tutto l'errore, perché qualcosa consente sempre di riaprire i giochi, fin che la vita e la ragione ci assistono.


Questo qualcosa è il punto di vista che ci motiva a continuare a lavorare anche quando non si vedono risultati, a credere anche quando si è rimasti delusi, a lottare anche quando si è perduto. E' forse anche la capacità di ripetere, con Tagore, che "ogni bambino che viene sulla terra viene a dirci che Dio non è ancora stanco degli uomini".


Sta di fatto che non si darebbe pedagogia senza quel continuo protendersi verso l'altro e verso il meglio che si chiama educazione; e non si darebbe educazione se non si nutrissero la speranza e la fiducia che la comunicazione autentica e testimoniale dispone di qualche efficacia, anche se, in ultima analisi, non sappiamo quanto né come.


 

L’associazionismo


Mi resta un ultimo elogio: quello dell’associazionismo, del quale ho fatto nel mezzo secolo scorso un’esperienza plurale, in particolare nell’UCIIM (insegnanti medi), nell’AIDU (docenti universitari), nell’ARDeP (associazione per la riduzione del debito pubblico). Mi limito ad utilizzare in proposito un pensiero di Italo Calvino, che ho sentito citare da Antonio Ruberti, già rettore della Sapienza, ministro dell’università e commissario europeo:


“Le associazioni rendono l’uomo più forte, mettono in risalto le doti migliori delle singole persone e danno la gioia che raramente s’ha, restando per conto proprio, di veder quanta gente c’è, onesta e buona e capace, e per cui vale la pena di volere cose buone.”