TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      2008, nº 3


Il pensiero di Gioacchino da Fiore

Emiliano Morrone

Emiliano Morrone, giornalista, regista e autore teatrale, fondato il giornale on line «la Voce di Fiore» di cui è responsabile, ha creato nel 2005 il movimento «Vattimo per la città», basato sull'emancipazione teorizzata dal filosofo. Nel 2006 ha ideato il Festival Internazionale della Filosofia in Sila, che dirige. Ha collaborato con il giornalista Gian Antonio Stella, i quotidiani «il Corriere della sera» e «il manifesto». E' autore, con Francesco Saverio Alessio, de "La società sparente", pref. di G. Vattimo, Neftasia Editore, Pesaro 2007.

 

 

Sappiamo con certezza che Gioacchino da Fiore nacque fra il 1130 e il 1135. Il dato ci aiuta a capire molto, rapportato alla storia d’Europa e dell’altro mondo, allora ignoto. Con ciò voglio anticipare qualcosa, intendendo con «l’altro mondo» ciò che il calcio, il pallone del Vecchio continente chiama il «resto del mondo».

La lettura del pensiero del Nostro mi pare ancora segnata da una remota visione eurocentrica. Non so dire se questo è l’esito – inevitabile – d’una profonda resistenza intellettuale al post-colonialismo o ai moti di liberazione, a partire da Marx, sospinti da Tricontinental e Leonhardo Boff, ad esempio. E non riesco a decidermi se, accanto o indipendentemente, vi sia una diffusa forma di nostalgia del fondamento, che sfida ogni giorno la secolarizzazione.

È probabile che tanta elaborazione storiografica e teologica del cattolicesimo dogmatico incida in modo decisivo nella ricostruzione circa la portata dell’opera e del progetto politico di Gioacchino. In altri termini, su larga scala, la letteratura che lo riguarda tende di solito a interpretarne gli scritti e le scelte monastiche come materia d’una spiritualità nuova, contraddittoriamente ricondotta all’affermazione dello spirito della Chiesa, per avocare Hegel. Ma il Nostro non era per le gerarchie, come scritto da Joseph Ratzinger nel 1960. In un saggio dell’ottobre 2005, Jürgen Kuhlmann1 ne ha ricordato un pensiero. L’attuale Benedetto XVI allora sosteneva che la nuova età non sarebbe stata per l’abate «absque praelatis».

Sul piano oggettivo, la filosofia di Gioacchino prevede un’apertura di campo: di fatto essa assegna alla storia un’altra età politica, caratterizzata da un diverso rapporto dell’uomo con Dio e, finalmente, dalla Sua manifestazione ecumenica, da una normazione divina «debolistica» e da una normatività «forte», inequivocabile, che non ammette interpolazioni, manipolazioni e imposizioni.

Gioacchino da Fiore, superando l’interpretazione letterale della Bibbia, ce ne offre un’esegesi per figure, poiché Dio non è traducibile in narrazioni. E, se dell’immagine non è lecita riproduzione, il Suo disegno di salvezza può essere – secondo l’abate – svelato per via di un’ermeneutica profetizzante della Parola, che conduce chi ne ha il dono, mediante l’individuazione di simboli sacri e la spiegazione del loro significato. Fin qui, verrebbe da concludere, «nihil sub sole novum», da che, nel Medioevo – e nella mistica mediorientale prima – lo stesso procedimento è ampiamente seguìto.

Ciò che distingue l’asceta di Fiore, vale a dire la sua originalità, risiede piuttosto in una visione della storia composta secondo «concordanze», per l’influenza d’un già noto – all’abate – simbolismo numerico nell’alveo di Agostino. La concezione che il Nostro ha del tempo non solo non è più cristocentrica, ma, basata su un progressivo avvicinamento di Dio all’essere (umano), si pone quale paradigma escatologico dell’evangelizzazione francescana e, a ben guardare, della rivoluzione ontologico-politica di varie utopie socialiste e dello hegelismo2, ma non del nazional-socialismo hitleriano, come invece alcuni teorizzano, suggestionati dalla somiglianza dell’aquila nazista con l’«Albero aquila» nel Liber figurarum dell’abate e dall’accostamento «terza Età»-«Terzo Reich».

Postulando l’accadere di tre età – situate lungo la linea continua del tempo, che corrisponde all’unità divina – Gioacchino annuncia l’avvento dell’ultimo segmento della storia, quello dello Spirito Santo, che sarà indubbiamente migliore dei precedenti e comporterà l’«oblio». Si potrebbe in proposito ricuperare la lezione di Ricoeur in La memoria, la storia, l’oblio3 e discutere di aspetti politici e filosofico-giuridici della teoria gioachimita, che riguarda la sequenza età del Padre–età del Figlio–età dello Spirito Santo.

Si tratta sì di una progressione, di un andare verso la salvezza; ma occorre precisare che, sul piano epistemologico, la medesima contiene una sorta di correttivo – di espediente morale4, direbbe Popper – secondo l’occhio contemporaneo, avvezzo ai numeri irrazionali, agli asintoti, gli insiemi infiniti et coetera. Le età di Gioacchino da Fiore sono, cioè, come insiemi intersecati, essendoci elementi dell’una che appartengono a tutte, non esistendo soluzione di continuità tra di esse e scorgendosi segni o rimandi d’ogni singolo tempo in un altro, o in tutti.

La rappresentazione grafica, nella figura dei «Tre cerchi», aiuta ad acquisire il modello della teologia della storia del Nostro. Se si legge in chiave kunghiana5 la teologia ternaria di Gioacchino, forse si resiste alla tentazione di personificare le manifestazioni di Dio che essa prevede. Padre è Dio che genera; Figlio è sempre Dio, che scende al livello umano per mostrar-si come la Sua creatura, al punto da patire e morire; Spirito Santo è Dio negli uomini, capaci di vivere, ormai, senza gli «imperativi categorici» dei «Dieci comandamenti», perché emancipati, liberati, nell’«oblio»; delle pene, dei patimenti, del sangue, del dolore e della schiavitù, secondo la teoria di Gianni Vattimo – derivante dal raccordo di Nietzsche, Heidegger e Gadamer – dell’«emancipazione umana come una progressiva riduzione della violenza e dei dogmatismi», «che favorisce il superamento di quelle ingiustizie sociali che da questi derivano».

L’«oblio» del monaco calabrese è, per interpretazione, una sorta di superamento – interno alla prospettiva dell’abate – degli eventi e prescrizioni nella Bibbia, ritenuti necessari alla salvezza ed elementi della sua storia? Potrebbe laicamente legarsi, poi, all’abbandono dell’inumana parzialità del Creatore e Ordinatore delle cose, di cui di recente ha scritto Christopher Hitchens6? Il Dio dell’Antico testamento ha eletto un popolo, ne ha punito altri, ha esortato alla guerra e raccomandato – è scritto nel libro dei Numeri – di uccidere «ogni maschio tra i fanciulli» e «ogni donna che si è unita con un uomo», nonché di conservare in vita – per i carnefici – «tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini».

Ancora, per rafforzare la non definibilità verbale di Dio, Egli stesso Verbo, si potrebbe aggiungere, a compendio del discorso sullo specifico metodo esplicativo di Gioacchino, che Kurt Goedel si cimentò in un’affascinante sfida dimostrativa, anni dopo il Tractatus di Wittgenstein e il conseguente dibattito, nel volume La prova matematica dell’esistenza di Dio7.

Si può appena suggerire un percorso che, partendo, per esempio, dai problemi sul linguaggio del Novecento – i «maialini di latte» di Borges, «le parole e le cose8» di Foucault, la distinzione fra «significante e significato» di de Saussure e, a ritroso, a livello gnoseologico, lo iato kantiano tra «fenomeno» e «noumeno» – corrobori il fascino, al di là della sua complessità allegorica od esoterica, della teologia figurativa di Gioacchino. Ma appare più interessante, in questa sede, porre la questione se l’abate alludesse, o meno, alla realizzazione d’una giustizia in Terra; così divergendo, o non divergendo, dallo schema cattolico, neoplatonico, della sua effettività nell’aldilà.

Nel libro della «Concordia9», scrive Gioacchino: «Tre sono dunque gli stati del mondo (…) che i simboli dei sacri testi ci prospettano. Il primo è quello in cui siamo vissuti sotto la legge; il secondo è quello in cui viviamo sotto la grazia; il terzo, il cui avvento è prossimo, è quello in cui vivremo in uno stato di grazia più perfetta. Dunque, il primo si è svolto sotto il dominio della scienza, il secondo trascorre sotto quello della sapienza, il terzo usufruirà della pienezza dell’intelletto. Il primo è trascorso nella schiavitù, il secondo è caratterizzato da una servitù filiale, il terzo si svolgerà all’insegna della libertà. Il primo è segnato dal timore, il secondo dalla fede, il terzo dalla carità. Il primo periodo è quello degli schiavi, il secondo è quello dei figli, il terzo è quello degli amici. Il primo è il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli».

L’approdo del Nostro a un’«età del compimento» non è estraneo all’Islam. Pensatori sciiti stabilirono l’«identificazione fra Imâm atteso e Paracleto». Il primo «non porterà un nuovo Libro rivelato, non porterà una nuova Legge, ma rivelerà il senso nascosto di tutte le Rivelazioni10», scrive Henry Corbin in Storia della filosofia islamica. In ambito cattolico permane un’estesa riluttanza allo studio comparato del profetismo dei tre grandi monoteismi dell’umanità.

Gioacchino da Fiore poté concepire la sua teologia storica grazie all’altopiano della Sila, a nostro avviso. Egli si ritirò in solitudine e contemplazione in un paradiso di silenzio meditativo e ascesi. Guardando il Wittgenstein di Jarman, fedelissimo sul piano biografico, ci si può rendere conto, peraltro, di quanto i luoghi influenzino i pensatori.

Tra le verdi montagne di quell’angolo di Calabria, l’abate iniziò a costruire un insediamento abitativo con le proporzioni della Gerusalemme celeste, di cui al libro dell’Apocalisse. La comunità florense, divisa in tre ordini, dei monaci, dei chierici e dei laici, era fondata sull’assegnazione di ruoli, la mutua cooperazione e la povertà. Dall’opera e dalla concreta esperienza di Gioacchino, nacque il francescanesimo. Gli spiritualisti, seguaci del frate di Assisi, portarono in Messico i nomi, lo stile di vita e il tracciato urbanistico di Fiore, il centro individuato dal Nostro per la renovatio su cui si basa la Divina Commedia di Dante. Le analogie sono infinite e significative, in Messico: ci indicano con chiarezza la dimensione rivoluzionaria del messaggio di Gioacchino, se è vero che fray Toribio de Benavente, «Motolinía», intimava al governo spagnolo di cessare le vessazioni e lo sfruttamento a carico degli indigeni. Ne parla Gorge Baudot in Utopía e Historia en México11. Addirittura, i francescani organizzavano matrimoni misti, tra vincitori e vinti, a riprova che l’utopia egualitaria della giustizia – di Gioacchino – ebbe da quelle parti una reale attuazione.

Ai nostri giorni, s’è un po’ accantonato, nella teoria politica sulle dinamiche dell’Occidente contemporaneo, il concetto di «individualismo possessivo12» introdotto da Macpherson.

In ogni caso – che ci sia un Impero13, «senza centro né periferia», in grado di imporre un «nuovo ordine mondiale» di valori, ideologie e assiomi politici; che si ammetta, con Marshall McLuhan, la corrispondenza fra «mezzo» e «messaggio», riconoscendone l’uso distorto e strumentale da parte di gruppi elitari dominanti; che si spieghino le guerre e le catastrofi con la volontà di potenza di oligarchie organizzate (le nuove crociate statunitensi per la «libertà duratura» o la sconfitta del terrorismo fondamentalistico, il potenziamento di Echelon per il controllo delle comunicazioni, l’impiego di «scie chimiche» per danni colossali, la costruzione di Haarp per condizionare il meteo, la creazione in laboratorio del virus dell’Aids) – non si può escludere l’utilità d’una lettura politica dell’opera di Gioacchino. L’abate può essere considerato il precursore del post-colonialismo, su cui ha scritto fluidamente, tra gli altri, Robert Young14.

In breve, il modello politico del Nostro, derivato da una precisa analisi di simboli biblici e rivolto all’attesa del compimento (della storia della salvezza), esso stesso annunciato per simboli nell’Apocalisse, fu riprodotto dagli spiritualisti francescani in Messico, che ne concretizzarono la carica (rivoluzionaria) di speranza e giustizia15. Sulla «posterità spirituale di Gioacchino» si possono leggere i due celebri tomi16 di Henri De Lubac, che ne espongono le numerose influenze nei secoli.

Sarebbe interminabile, poi, l’elenco di riformisti riconducibili all’utopia gioachimita, in generale dolosamente trascurati dall’accademia e dalla Chiesa. Basti pensare a Dolcino e Lazzaretti, o a teologi sull’asse della liberazione, Aristide, Assmann, Avila, Frei Betto, Leonhardo Boff, Bonino, Cardenal, Girardi, Croatto, Ellacuría, Sobrino, Tamez, Restrepo, Oscar Arnulfo Romero.

Siamo chiamati, proprio cominciando dall’universalismo cui mira la teologia – o, in senso politico, utopia – del Nostro, a una maggiore connettività scientifica sul profetismo, il simbolismo, il misticismo e il millenarismo, nel cui solco si inserisce l’opera spirituale, intellettuale e politica di Gioacchino da Fiore. L’accentuazione di un improbabile asservimento dell’abate alla gerarchia ecclesiastica contraddice la lettera delle sue opere e la loro interpretazione nel tempo.

Heidegger stesso era un gioachimista. Vattimo, invece, come ha osservato il teologo Massimo Naro, sembrerebbe essere l’«ultimo monaco florense». Il filosofo di Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso17, parrebbe nello stesso testo oltrepassare l’eredità del nichilismo nietzschiano, rivitalizzando l’attualità del pensiero dell’abate, anche ri-esaminato sotto la luce di un’ermeneutica cristiana della liberazione. D’altra parte, se l’origine e lo sviluppo del «pensiero debole» non sono riconosciuti cristiani dalla Chiesa ufficiale, Maurizio Ferraris li ha spesso qualificati come tali, quasi che fosse una colpa, nel presentare il suo Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede18?.

L’«ermeneutica cristiana della liberazione» proposta da Vattimo, evidente séguito del gioachimismo, della profezia della «Terza età», importa, in qualche modo, l’abolizione di superiorità religiose, culturali e di sistemi politici imposte in nome di principî ma in virtù di «rapporti di forza19» all’interno di «contesti20». Facile, qui, l’inserimento di un link al lavoro intellettuale di Verena Stolcke contro i «fondamentalismi culturali».

Sul serio Gioacchino da Fiore andrebbe riletto nel quadro del pluralismo post-moderno, agevolato dall’«intelligenza connettiva21» teorizzata dal massmediologo Derrick De Kerckhove.

Giunti fin qui, si può riportare un passaggio di Vattimo in La società trasparente. Dice il filosofo: «Ciò che intendo sostenere è:

a) che nella nascita di una società post-moderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media;

b) che essi caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società più complessa, persino caotica;

c) che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione22».

Per Vattimo siamo in piena età dello Spirito. Sul piano politico, tentando di cogliere l’essenza del messaggio di Gioacchino, la lotta al brainstorming dell’informazione di massa può essere certamente una strada da percorrere per giungere a una giustizia nel mondo.

Mentre un’inversione di tendenza, quale, per esempio, quella propulsa, sia pure con premesse molto diverse, da Antonio Negri e Alfonso Maurizio Iacono23, cioè una liberazione dal mercato sregolato e un’«autonomia» dal capitalismo imperante, potrebbe non contrapporsi al socialismo spiritualistico dell’abate florense.


Note:

1 J. KUHLMANN, La profezia sul rinnovamento della Chiesa del “beato” Gioacchino, in Abate Gioacchino, Anno II, numero del 4 Giugno 2005, pp. 57-59.

2 H. DE LUBAC, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. II. Da Saint-Simon ai nostri giorni, Jaca Book, Milano, 1984, pagg. 548.

3 P. RICOEUR, La memoria, la storia, l’oblio, Edizioni Raffaello Cortina, Milano, 2003, pagg. 741.

4 Per un approfondimento in sede di teoria epistemologica, si può leggere K. R. POPPER, Congetture e confutazioni, Ed. Il Mulino, Bologna, 1972, pagg. 725.

5 H. KUNG, Cristianesimo, Bur, Milano, 1999, pagg. 952.

6 C. HITCHENS, Dio non è grande, Einaudi, Torino, 2007, pagg. 270.

7 K. GOEDEL, La prova matematica dell’esistenza di Dio, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pagg. 123.

8 M. FOUCAULT, Le parole e le cose, Bur, Milano, 1988, pagg. 437.

9 F. D’ELIA, Gioacchino da Fiore un maestro della civiltà europea, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 1991, pp. 60-62.

10 H. CORBIN, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano, 2000, pag. 85.

11 G. BAUDOT, Utopía e historia en México: los primeros cronistas de la civilización mexicana (1520-1569), Espasa-Calpe, Barcelona, 1983, pagg. 523.

12 C.B. MACPHERSON, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell'individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Isedi, Milano 1973, pagg. 341.

13 T. NEGRI e M. HARDT, Impero, Rizzoli, Milano, pagg. 451.

14 R. YOUNG, Introduzione al postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2005, pagg. 189.

15 S. CASTELLANOS DE GARCÍA, Concretización de la ciudad de los Ángeles: su traza y paralelismo con la Jerusalén Celeste, su escudo. Reflejo del Joaquinismo-Franciscano y del apocalipticismo romano renacentista, «Florensia» 13-14, 1999-2000, Dedalo, Bari, pp. 45-96.

16 Si legga l’opera completa di HENRI DE LUBAC, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, trad.it., 2 voll., Jaca Book, Milano 1981 e 1984.

17 G. VATTIMO Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano, 2002, pagg. 147.

18 M. FERRARIS, Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, Torino, 2006, pagg. 151.

19 C. GINZBURG, Rapporti di forza, Feltrinelli, Milano 2001, pagg. 168.

20 G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1977, pagg. 604.

21 D. DE KERCKHOVE, L’intelligenza connettiva. L’avvento della Web society, Aurelio De Laurentiis multimedia, Roma, 1999, pagg. 238 pagine.

22 G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989, pag. 11.

23 A. M. IACONO, Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000, pagg. 176.


 
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