Dottore di ricerca in
Scienze letterarie,
Retorica e Tecniche
dell'Interpretazione
Cultore di
Letteratura italiana
Presentazione
Michele Borrelli
"La
voce dei fiori. Quaranta
liriche per la ricerca
di senso"
(Luigi
Pellegrini Editore,
Cosenza 2008)
La scrittura
poetica di
Michele Borrelli,
offerta per la
prima volta al
pubblico, viene
qualificandosi
entro un giro
tonale che trae
origine e
significazione
(l´enunciato
specifico di ciò
che il segno
lirico
partorisce) da
quella che, da
un lato,
realizza
"apparentemente"
la conclusione materica
dell´esistenza
(la morte,
variamente
appellata),
mentre,
dall´altro,
proprio la
finitezza del
"percettibile"
trasmette
l´immissione
dell´Io in un
tempo e in uno
spazio che
addensano nella
veglia
della ragione il
suono e l´eco di
un canto
ipertroficamente
liturgico. Una
sacralità cioè
del poetare che
vive e si muove
tra la
recettività
gnoseologica
tutta tesa a
dare
testimonianza
della severità
delle tappe che
raggiunge o che
non vorrebbe
raggiungere e,
assieme,
sostante
nell´azione di
amalgamare nell´oltre,
indistinto e pur
presente, per
paradossale che
possa sembrare,
il logos
in una
esplosione
vibrante e
sagacemente
intuitiva,
mentre esso, al
contempo, viene
spronato a
"dire" ciò che
il soggetto
avverte
nella
"spogliazione
serale"
dell´anima
operata
(resa attiva)
dal poeta e da
ciò che
quest´ultimo le
ricorda. E il
verso contempla
le stanchezze
del peso dei
pensieri e
l´orrore di un
male il cui
enunciato si
mescola con
quello di bene:
da qui la
rêverie
della
reminiscenza e
la sua
evocazione
creano osmosi
repentina della
parola, che si
muove tra l´attuale
e l´attualità
(wirklich-wirklichkeit).
E
nell´intercapedine
temporale,
generata dalle
esperienze delle
fasi diacroniche
della storia dell´individuo e
degli individui,
il suicidio di
Dio va a
sostituire
l´omicidio
operato
dall´ente, e i
"valori" pur
stravolti
sembrano
rimanere
disorientati
dalla
perplessità di
porre obiezioni
al vissuto. La
poesia così si
ammala del già
detto (dello
scontato) e
risorge di
continuo nella
corsa affannata
ma istintiva per
raggiungere il
comprehendere.
Le valorialità e
le "categorizzazioni"
proprie di una
impostazione
speculativa che
si
identificherebbe
in principi ed
asserti
"evidenti" nella
"poeticizzazione"
del canto
sembrerebbero, a
loro volta,
rovesciare le
tesi sulle quali
andrebbero a
basare le
fondamenta della
propria
apparente
pericope,
oltrepassando
così la
teorizzazione
dell´idea e del
suo contrario in
una
codificazione
narrativizzante
della lirica,
facendo sì che
la "fantasia"
(lo spettro
della memoria)
incateni
l´egoità di
colui che canta
alle
considerazioni
delle
"concretezze"
provenienti
dalla realtà
circostante o da
quella suggerita
dal pensiero
sulla vita.
Il passato e
l´avvenire,
rapportati allo
scandalo
necessitante di
"parlare"
sull´essere (la
necessità è
predicativo
dell´ente
come bisogno
dell´anima ed è,
poi, il
consequenziale
prodotto delle
imposizioni
dettate dal
contesto
diegetico)
partorito dallo
stupore (che non
è incoscienza)
delle sue stesse
movenze, fanno
germinare la
domanda di senso
sull´applicazione
esistentiva
della scelta: il
testamento si fa
verso ed il
verso diventa
quantificatore
di una
religio che
non annette a sé
alcuna soluzione
moralistica, la
quale invece è
tutta racchiusa
prima del canto
in quel «Perché»
ossessionante
della lirica
d´apertura,
Eutanasia.
Il poeta è,
dunque, assieme
respondens
e opponens:
si domanda e
domanda, dà
risposta e
riceve risposta
dalla "gravezza"
di un vissuto
condensato nelle
pieghe di una
carne ormai
lacera; così «Il
mio corpo/ è qui
inerme/
indurito/ da
quiete/ avvolto/
rapito dal
nulla», e la
lingua assume la
criticità di
veicolare la
problematica
sull´essere,
investendo
(costruendo la
responsabilità
del farsi voce)
la persona nella
sua totalità e
che
necessariamente
deve cancellare
ogni aspetto
retorico dalla
sua trama
"stilistico/grammaticale"
per trasformare
gli oggetti
sensibili
non in vuoti
onanismi
cerebrali ma
traduttori di un
mistero che solo
il bisogno
provocato dal
dolore può
rigenerare/riprodurre
nella datità
poetica: «anche
il cuore s´è
fermato/ riposa
sereno/ ha
finito di
supplicare» (ibidem).
In questa
raccolta
versificatoria,
La voce dei
fiori. Quaranta
liriche per la
ricerca di senso,
Michele Borrelli
sente
l´incessante
richiesta di non
cedere al
con-senso
mondano e alla
forse troppo
scontata "scandalizzazione"
del proferire un
contrario
principio a
quello diffuso
nella società
del qui
(probabilmente
anche del
"prima"), per il
sensazionalistico
atteggiamento di
realizzare
quindi un
opposto che
soddisfi il
manierismo
intellettualistico
del momento.
La parola
centrale del
libro è senso,
il quale vuole
aderire al
sentimento (l´attrazione
verso l´affetto
che prova l´Io
per se stesso e
la conquista
defettibile che
lancia
continuamente in
sé)del
suo esserci,
esponendosi nei
labirintici
processi
speculativi fino
a neutralizzarli
e, parimenti,
cogliendo nella
tensione del
canto la "soggettivizzazione"
di un verso,
appunto, che si
rende testimone
non solo e non
tanto dei
pensieri, oltre
l´atto
speculativo,
quanto capace di
catalogare
nell´archiviazione
riflessiva,
mediante la
"cetra", le
epoche delle sue
trasformazioni.
Le figure intime
del vissuto del
cantore spazializzano
in un "foris",
in cui le storie
della
narratio del
"domi", ora
familiare ora
comunitario,
devono (il
dovere è
conditio
sine qua non
del poetico)
comunque essere
esposte,
l´oggetto della
ricerca (la
verità e il suo
contrario); e i
nomi e le cose
laconicamente
tradotte
istruiscono le
liriche ad
assurgere a
strumento per
disvelare
l´attributo del
loro stato. Il
«davvero», posto
nell´ultima
parte del primo
componimento,
raccorda
l´intera
sequenza lirica
nel gesto
esemplificativo
di dare conto
del morire e
della morte, ma
più ancora
rimanda ad un
sentimento della
colpa, che non
indica chi l´ha
generata o
perpetuata, ma
che individua
nel percorso
della storia che
la regge l´indubitabilità
apodittica
dell´approfondimento
dell´evidenza:
«stacca tu
quest´inutile
spina» (ibidem).
La richiesta di
fornire
soluzioni che
diano una
tranquillità a
chi le chiede
non vengono in
realtà esposte,
se non come
risvolto di una
urgenza più che
logica (nell´accezione
comune del
termine)
pre-riflessiva (protologica:
il poeta tende a
cucire nella
pietà che
riversa su di sé
il nulla al
tutto, indagando
sul motivo dell´«infierire»),
e l´atto
conclusivo,
disperante della
supplica («vi
supplico», «ti
supplico»,
«supplicare») fa
intravedere il
dialettico
confronto tra un
Io
meta-strutturato
e un Voi, i
quali traducono,
alternandosi,
sia il desiderio
di finitezza che
la volontà di
ritornare nella
finitezza stessa
per apparentarsi
nell´affetto con
e dell´origine.
Il linguaggio,
sagace dimora
dell´essere, è
di stampo
filosofico, ma
indulge,
ripulito dalla
tentazione di
esporsi in una "trattatistica
liricizzante",
alla parenetica
dinamicità del
"racconto in
versi". Se in
alcuni
componimenti il
resoconto
storicizzante di
un tu o di un
noi legati
dall´io lirico
si qualifica
come tema
centrale del
canto, in altre
il pensiero
sull´infinito,
sull´essere, sul
tempo, sul
nulla, sul
nome
dell´uomo e di
Dio, sulle
tragedie intime
e collettive,
sulla
scienza/tecnica
e sulla poesia
stessa
riflettono le
vicende di un
incontro o di un
abbandono, di un
sentire
l´abbraccio
pervasivo del
Tutto o di
avvertire la
potenza del
Nulla, recettivi
stimoli alla
ricerca che il
poeta compie per
darsi una
qualifica che lo
identifichi
nell´
Essere. Ecco
che le domande
del cantore ai
suoi affetti
(«Dimmi papà,
dimmi mamma/
perché non siete
tornati?»,
Orfano) sono
ricostruzione
dettagliate («il
mio ritorno»,
Emigrante)
del rendiconto
della memoria,
che si va ad
unire al
desiderio di un
avvenire che
oltrepassi il
trascendente e
si insinui in
perenne
circolarità
sull´atto di
responsabilità
nei confronti
dell´altro, che
diventa il
Medesimo quando
la malinconia
riempie il vuoto
dell´«ultima
sembianza/
d´essere umano»
(Malinconia),
mentre le
dissolvenze
delle percezioni
riordinano i
loro processi e
spingono a
comprendere
nell´«adesso» (Partenza)
poetico «cosa
avevi in mente
e/ dell´angoscia
infinita/ in cui
mi hai lasciato»
(ibidem).
A ricoverare la
solitudine è un
"tu" reso,
diremmo, fisico,
quasi tangibile
dal
«presentimento
di morte» (Silenzio).
Esso si
concretizza
quale idea
(essenza/sostanza)
che porga le
coordinate da
cui il nulla
germina; e dal
«Tutto tace» (ibidem)
la voce del
nulla/silenzio
erompe come
vagito
preannunciante il
movimento tra
cogito e
cogitatum.
Praxis e
pathos
sembrano
rincorrersi in
una geografia
inquietante
dell´anima,
dalla quale al
«Vento d´autunno»
(Ridammi il
cuore) il
«deserto
interiore» (ibidem)
fa da sfondo
entro le
incalzanti
interrogazioni
inerenti il
processo sulla
storia del
noi/uomo:
l´osservazione
delle movenze
del memento
unitamente
all´oltraggio
subìto dalla
forza che ha
materiato l´uomo,
dall´essere
stesso
dell´Essere
spinge il poeta
a gridare contro
il peso che
"occorre"
portare e
sopportare:
quello che ha
schiacciato
l´altro non
facendolo
diventare
prossimo,
privandolo di
conoscersi, o
meglio sapere
dell´altro
il termine
mediante il
quale osservare
la luce o la
tenebra. Il
recinto a tratti
aperto e a
tratti chiuso
nel quale lo
Straniero
cammina «nel
vuoto» (Straniero)
o dal quale
ascoltare «le
voci/
strazianti/ dei
fiori/ degli
steli/ che
cercano/le
corolle/ e
queste i loro
petali/
smarriti/
similmente/ alle
anime/ degli
umani» (La
voce dei fiori),
riproduce il
luogo più
intimo
dell´esistenza e
i corpi e le
loro anime sono
visti dal
disgiunti
«inesorabilmente»
(ibidem).
Il poeta,
tuttavia, non
cede alle
lusinghe dei
pensieri né a
quelle
provenienti dal
nulla: continua
incessante la
sua ricerca.
Il tessuto
poetico di
questa raccolta
si distende nei
travagliati e
fascinosi
meandri di molta
scrittura in
versi, che,
sebbene in modi
diversi, a
partire da
Hölderlin e
Leopardi,
attraverso il
Nietzsche
lirico, e non
solo, trova pur
nelle rispettive
differenze,
soprattutto nel
pensiero/poesia
del Novecento,
un "suo
riproporsi" con
forza e
singolarità: il
Nostro è così
sedotto dalla
voce di una
vicenda (la
propria) che lo
espone alla
comparatio
con «il tempo» (A
Martin Heidegger
Lichtung) di
molti "pastori
dell´essere", i
cui armenti,
attraversando
svariati
pascoli, hanno
conosciuto il
dramma della
notte oscura e
l´insidia di una
o più verità,
che si
perpetuano
ora «per
quel viaggio/
del non ritorno/
che d´infinito/
si nutre» (A
Giorgio Penzo)
ora in
quel «mio/addio»
(La morte)
pronunciato dal
poeta nel
«Tempo/ a cui
niente sfugge» (Il
tempo). Un
tempo che invera
o dovrebbe
tradurre «il
senso d´ogni
corsa» (L´ultima
sfida): un
sentimento
alimentato nel «
grido
straziante/ di
Dio e il pianto/
delle anime/ dei
bambini / che
cercano/disperatamente/
le loro mamme» (Stella
di Davide).
Al centro del
canto di Michele
Borrelli è
l´uomo: quello
stesso che
sembra dire di
non desiderare
di essere quello
che è,
partorendo la
sua essenza come
il risultato di
un «Vorrei
essere» e di un
«semplicemente/
essere» (Essere).
Il canto
contenuto in
queste pagine,
secondo la
nostra analisi,
ha molti punti
in comune con
quella poesia
detta ontologica
o meglio quella
che dalla
riflessione
ontologica parte
per tentare l´ascesa del
metafisico,
sempre, però,
con chiaro
riferimento alla
"natura/struttura"
del termine e
del suo etimo:
ossia di un
processo che
tende oltre
il materiale e
che, tuttavia,
da esso prende
le mosse per
regolare il
cammino al di là
«dell´acqua
limpida dei
ruscelli» (La
voce dell´essere)
nel «senso delle
cose» (ibidem).
L´afflato
naturalistico e
il termine di
matrice "eidetica"
caratterizzano
la parte finale
del libro,
conferendo alla
parola la
sacertà del
gesto liturgico,
di una liturgia
volta ad
oltrepassare
l´ambiguità
semantica delle
locuzioni
enunciative per
introdurre il
senso del valore
conoscitivo che
solo la poesia
(per seguire un
comandamento
antico ma sempre
attuale), dopo
il travaglio
prodotto dallo
scontro tra
ragione e
asserzione
fenomenologica,
può offrire
accordando
ancora la
possibilità di
pensare mediante
il canto e solo
tramite esso
l´intonazione
"adatta" al
nome proprio.